«Tempi beati quelli in cui è il firmamento a tracciare la mappa delle vie accessibili e da battere, rischiarandole alla luce delle stelle. Tutto è nuovo in essi e però familiare – avventuroso e insieme avito. Vasto è il mondo e tuttavia non più della propria casa, giacché il fuoco, che brucia nell’anima, divide la sostanza con le stelle; un taglio preciso separa il mondo dall’io, la luce dal fuoco, eppure esso non è tale da renderli per sempre stranieri; il fuoco, infatti, d’ogni luce è l’anima, e ogni fuoco di luce si riveste. Così, ogni atto dell’anima prende senso e pregnanza da questa duplicità: è compiuto nel senso e compiuto per i sensi; è pregno perché l’anima, durante l’azione, riposa in sé stessa; ed è pregno perché l’atto si stacca dall’anima e, divenuto autosufficiente, cerca un centro suo proprio e traccia attorno a sé un circolo conchiuso. “Filosofia è propriamente nostalgia,” dice Novalis “è l’impulso a sentirsi dovunque a casa propria”. Dunque la filosofia, sia come forma della vita che come forma determinante della poesia e del suo contenuto, è sempre un sintomo dello strappo tra l’interno e l’esterno, un segno della differenza essenziale tra l’io e il mondo, dell’incongruenza tra l’anima e il fare. Per questo i tempi beati non hanno filosofia, oppure, il che è lo stesso, tutti gli uomini vivono in essi da filosofi, depositari dei fini utopistici di tutte le filosofie. Forse che il compito della vera filosofia non consiste nel tracciare quella mappa originaria?»
György Lukács, Teoria del romanzo.