«Clemenza è la virtù di chi è clemente, di chi manifesta comprensione e benevolenza: la esercita prevalentemente il giudice che mitiga la pena, il politico che concede la grazia o l’amnistia, l’insegnante che alza i voti. Clemenza è però anche, vista dalla prospettiva del metodo di indagine concettuale-analogico-metaforico che mi è congeniale, la giustizia che sporge, che eccede, che esce per un momento dalla sua rettitudine. È la giustizia che si piega, si inclina, si china.
Chinarsi è il gesto della cura. E in effetti la clemenza ha attitudini comuni alla cura: attenzione, dolcezza, misericordia. Non è però né l’una né l’altra né l’altra ancora. Clemenza richiama anche perdono, come grazia, del resto, e amnistia e prescrizione, tutti cosiddetti, s’è ricordato, istituti di clemenza; come se la clemenza non avesse un posto a sé nella giurisdizione ma facesse soltanto funzione di ombrello che sussume diverse pratiche empiriche. In questa accezione la clemenza rientra nei canoni del diritto, trasformandosi in virtù giuridica e politica. Clemenza mette in gioco anche aspetti e comportamenti pratici, quali sicurezza, opportunismo, interesse, di cui ci occuperemo. Clemenza evoca magnanimità e umanità in chi la concede, come pure sottomissione e umiliazione, se non prostituzione in chi la richiede. (…) Clemenza è la dote di chi agisce secondo equità e rettitudine, perdonando senza però rinunciare alla giustizia. Non equivale a misericordia e pietà perché non mette in gioco il cuore e le passioni, bensì la testa e la ragione, tant’è che non poca è la sua utilità politica.»
Francesca Rigotti, Clemenza.