«Si è parlato di una fine dell’Europa, se non dell’Occidente, come dell’evento che segna drammaticamente l’epoca che stiamo vivendo. Ma se c’è in Europa un paese in cui alcuni dati permettono di certificare con sobria precisione la data della fine, questa è l’Italia. I dati in questione sono quelli della demografia. Tutti sanno che il nostro paese conosce da decenni un declino demografico che lo classifica come il paese europeo con il più basso tasso di natalità. Ma pochi si rendono conto che questo significa che il perdurare di questo declino condurrebbe in sole tre generazioni il popolo italiano verso l’estinzione.
È per lo meno singolare che ci si continui a preoccupare di problemi economici, politici e culturali senza tenere conto di questo dato, che li vanifica tutti. Evidentemente come non è facile immaginare la propria morte, così non si ha voglia di immaginare una situazione in cui non ci saranno più italiani. Non mi riferisco ai cittadini dello Stato italiano, che un po’ più di un secolo fa non esisteva e la cui sparizione in fondo non mi preoccupa più di tanto. Mi rattrista piuttosto la possibilità perfettamente reale che non ci sia più nessuno per parlare italiano, che la lingua italiana divenga una lingua morta. Che, cioè, nessuno possa più leggere la poesia di Dante come una lingua viva, come Primo Levi la leggeva ad Auschwitz al suo compagno Pikolo. Questo mi rattrista infinitamente di più che la scomparsa della Repubblica italiana, che del resto ha fatto tutto quello che poteva per condurre a quella fine. Resteranno, forse, le meravigliose città, resteranno, forse, le opere d’arte: non ci sarà più il “bel paese là dove ‘l sì suona”.»
Giorgio Agamben, Finis Italiae.