Foto di Ulrich Mayring – CC-BY-SA 3.0
Poche frasi identificano il Milanese più del “E se non ci vediamo più, tanti auguri!”. Come tutte le frasi di questo genere non sono esclusive di un posto. Ci mancherebbe. Ma in quel dato luogo evocano qualcosa che suona familiare e appropriato. “E se non ci vediamo più”, incarna proprio l’essenza della città della Madonnina. Su moltissimi livelli, niente di meno. Prendiamo il primo e più banale: il Milanese il 25 dicembre spegne il telefono. O, perlomeno, lo mette in silenzioso. Sbrigate le formalità sui gruppi WhatsApp, se non si lavora non si comunica con le persone che non appartengono al cerchio di luce della famiglia e di pochi, selezionati, amici. Non si chiamano le persone, non gli si scrive. Eppure logica vorrebbe che nelle due/tre ore di media risparmiate sui vari pasti, che qui durano considerevolmente meno, si chiamasse chi ci sta simpatico per fare gli auguri. Eppure no, si parte dal 1° dicembre con gli auguri proprio per risparmiarselo.
Ma questo livello argomentativo da Casa Surace è solo il primo livello. Si può andare più a fondo. A Milano durante le feste di Natale c’è più o meno il vuoto. Quasi peggio di agosto. Il fatto è che, ormai, di Milanese a Milano non ne è rimasto nessuno. “Sono tutti al Famedio”, scherza qualcuno riferendosi al Cimitero Monumentale. Milano è un porto di mare, una città sempre meno reale. Ogni anno che passa è sempre più simile alla Megaditta di Fantozzi e sempre meno alla città di Vallanzasca. Il che non è necessariamente un male, ma rende la probabilità di vedersi fisicamente il 25 o anche solo di parlare la stessa lingua, avere i medesimi orari e festeggiare la stessa cosa molto inferiore. Tanto vale approfittarne finché ci si incontra per strada.
Terzo livello, ed è un segreto ben custodito, per cui divulgatelo con attenzione mi raccomando, il Milanese non lavora più come un tempo. Già, è shoccante, vero? Il Milanese Imbruttito, alias Germano Lanzoni, ha un po’ perso di grinta (e comunque a Natale era stabile a Curma dalla prima stagione) e persino la già citata Casa Surace non è più quella di una volta. La verità è che il Covid ha colpito al cuore l’etica della fattura. Questo implica un certo senso di vergogna diffuso, che porta a coprire le proprie tracce e la ritrovata umanità nascondendosi dietro l’anonimato comunicativo. Si stacca il telefono, ma ci si finge al lavoro comunque. Ecco, dunque, che se una volta non si chiamava e non ci si augurava perché si era operativi, oggi non lo si fa per tenere su una facciata a cui nessuno crede. È una versione del Canto Natale a cui manca ancora il lieto fine, in linea con molto di questo paese, ma che è quanto meno nella giusta direzione.
Quarto, e penultimo, livello: Natale è stagione di bilanci. E la città, che peraltro in queste ore sta approvando il suo di Bilancio, ha qualche problema. I conti tornano sempre meno. Non è necessariamente colpa di Milano, ma da qualche anno il passivo è là che ti guarda. Non è colpa, dicevamo di Milano, in quanto entità amministrativa. È colpa di Milano come sogno. I molti che qui si sono recati arrivando a raddoppiare la popolazione volevano qualcosa. Chi fama, chi successo, chi solo un lavoro come tranviere. Formalmente molti l’hanno trovata. Ma dietro c’è sempre un ma in agguato. Molti lavorano per ATM, la società di trasporti. Ma vivono una vita difficilissima, tra alloggi piccoli e distanti e lunghe traversate per tornare da mamma il fine settimana. È una vita difficilissima, ma non ti puoi lamentare. Sei a Milano, no? Qualcuno è più fortunato, lavora da quadro o dirigente. Ma a fine mese scopre che ha dovuto fare gli stessi sacrifici dell’impiegato comunale al paese. Perché? Perché Milano è cara. Carissima. E poi c’è chi ha fatto successo e per uno stramaledetto pandoro… Vabbeh non continuiamo, ma ci siamo capiti. Milano GIUDICA. Moltissimo. E pure da fuori ci si mettono. Quindi, a Natale, al paese, in mezzo a tutti quelli che ti considerano arrivato, è meglio evitare di parlare con gli altri “milanesi”. Potrebbe scivolare la maschera. Potrebbero scendere delle lacrime. No, no: ci si rivede dopo il 6.
Ultimo e più profondo livello: Milano è un po’ come Avalon. Non la città delle nebbie, la nebbia qua non si vede più. No, è semplicemente irreale. Non la si associa con le cose VERE, tipo la famiglia, il Natale o la tavola imbandita. Per cui suona quasi sacrilego pensare di averci a che fare il 25 dicembre. E per estensione questo include tutti coloro che si rivedranno il 6. Quelle due settimane sono per le cose di valore. Milano può aspettare.
Per concludere, cari lettori, direi che ci possiamo lasciare con un augurio natalizio molto Milanese: se non ci leggiamo più, buon Natale!
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