Dubai City
Credo che l’applauso con cui i partecipanti alla ventottesima “Conference of Parties” hanno accompagnato l’approvazione del documento finale scaturito dai lavori della conferenza sia stato un applauso liberatorio. Liberatorio dai numerosi incubi che hanno caratterizzato la COP 28 fin dalla sua nascita.
Incubo n.1
Il primo incubo è il luogo dove si è tenuta la conferenza – Dubai – vale a dire una città degli Emirati Arabi Uniti la cui popolazione è aumentata in modo vertiginoso, dai 200.000 abitanti nel 1980 agli attuali 3.500.000, grazie all’impetuoso sviluppo economico generato dalla scoperta negli anni ‘60 di giacimenti di petrolio.
A questo enorme aumento della popolazione ha corrisposto una crescita urbana che ha trasformato un piccolo insediamento nel deserto in una fungaia di grattaceli di dimensioni enormi (il più alto, Burj Khalifa, è di 830 m.), dalle forme più inusitate (un paradiso per le archistar) e con edifici e impianti dove grazie a sistemi di climatizzazione forzata è possibile, come nello Sky Dubai, sciare in piena estate mentre la temperatura esterna arriva a 45-50 gradi.
Sky Dubai
Insomma, una città divoratrice di energia che, guarda caso, viene prodotta da combustibili fossili – di cui Dubai è uno dei maggiori produttori ed esportatori al mondo – che sono la causa primaria delle emissioni di CO2 e dei conseguenti fenomeni di alterazione del clima e di degenerazione dell’ambiente.
La ragione per cui una simile aberrazione urbana sia stata scelta come sede di una conferenza sui cambiamenti climatici, è un mistero che fa capo agli equilibri di potere tra i 198 Paesi aderenti. Sta di fatto che luogo peggiore non poteva essere scelto.
Il Presidente-Petroliere
Incubo n.2
Il Presidente della COP 28 è “Sultan bin Ahmed Al Jaber”, che è contemporaneamente: Ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti, inviato speciale degli Emirati per i cambiamenti climatici e Amministratore Delegato della ADNOC-Abu Dhabi National Oil Company, una delle più grandi compagnie produttrici di energie fossili al mondo. Un conflitto di interessi niente male.
Al Jaber è noto per aver programmato un aumento della produzione di petrolio della ADNOC da 3 milioni di barili/giorno nel 2016 a 5 milioni nel 2030.
E’ altrettanto noto per aver operato attraverso i media per accreditarsi come sostenitore dell’uso delle energie alternative, minimizzando il suo ruolo di leader mondiale nel campo della produzione di energie fossili.
E’ noto, infine, per aver affermato durante i lavori della conferenza che non vi è “nessuna prova scientifica della necessità di rinunciare ai combustibili fossili” e che “senza il petrolio l’umanità tornerebbe nelle caverne”.
La ragione per cui una persona con un simile profilo sia stata nominata Presidente della COP 28 va ricercata nel peso decisivo avuto nella decisione dall’OPEC – “Organization of the Petroleum Exporting Countries”, vale a dire l’organizzazione dei Paesi maggiori esportatori di petrolio di cui gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita sono i maggiori esponenti, con il fiancheggiamento della Russia la cui economia si regge esclusivamente sulla vendita di gas, ora in crisi a causa dell’invasione dell’Ucraina.
Incubo n.3
Alla COP 28, oltre ai rappresentanti dei 198 Paesi aderenti, sono stati invitati a partecipare 2.456 lobbisti delle fonti fossili, quasi il quadruplo dei 638 presenti l’anno precedente alla COP 27 a Sharm-el-Sheik (una presenza già inspiegabile). Vale a dire che era presente un agguerrito gruppo di persone interessate ad orientare le conclusioni della conferenza in direzione favorevole al mantenimento dell’uso di petrolio, gas e carbone. Una lobby sostenuta dall’Arabia Saudita, che all’inizio dei lavori ha dichiarato che l’abbandono dei combustibili fossili “non era assolutamente in discussione”.
L’applauso liberatorio
Di fronte a questo scenario da incubo la gran parte dei partecipanti deve aver pensato che la COP 28 sarebbe stata una delle peggiori tra le tante e inutili che si erano succedute dopo le uniche significative – Kyoto 1997 e Parigi 2015 – fino a quella inguardabile dello scorso anno a Sharm-el-Sheik. Sicché hanno accolto con un sospiro di sollievo il “Global stocktake” (bilancio globale) – il comunicato finale è stato dato per approvato in tre minuti da Al Jaber senza aprire una discussione nel merito – e si sono lanciati in un applauso liberatorio.
Hanno partecipato all’applauso, con qualche ragione, i Paesi più arretrati, quelli che dall’eliminazione dei combustibili fossili subirebbero una battuta d’arresto nel loro sviluppo. Un problema da affrontare.
Ha applaudito convintamente la Russia, che sostiene il cartello dei petrolieri, e hanno applaudito la Cina e gli Stati Uniti che, per ragioni diverse, non vedono di buon occhio un’accelerazione nella fuoriuscita dalle energie fossili.
Hanno anche applaudito – senza motivo – i Paesi europei, che hanno perso l’ennesima occasione per giocare un ruolo trainante nell’applicazione degli accordi di Parigi 2015.
Ovviamente non hanno applaudito i 44 Paesi insulari facenti parte dell’AOSIS, sui quali ricadono già oggi le maggiori conseguenze dei cambiamenti climatici, il cui Presidente – Cedric Shuster di Samoa – vedendo la piega che prendevano i lavori aveva detto “Non firmeremo il nostro certificato di morte. Non possiamo firmare un testo che non preveda impegni forti per abbandonare i combustibili fossili”.
Inondazione a Samoa (2020)
Un accordo storico?
Dunque, al di là dell’applauso liberatorio e delle diverse reazioni a caldo, che valutazione possiamo dare della conclusione della COP 28?
Anzitutto va detto che dal punto di vista formale si è trattato di una netta regressione dall’aspettativa iniziale di abbandono dei combustibili fossili (phase-out), ad una più contenuta di riduzione proposta nel corso dei lavori (phase –down), fino alla formulazione finale di un percorso di transizione (transitioning-away) che meno ovvia e priva di contenuto non poteva essere.
Poi va detto che dal punto di vista sostanziale non è stata posta alcuna condizione – né quantitativa né temporale – per il perseguimento di questo percorso di transizione, lasciando a ciascun Paese di comportarsi come ritiene più opportuno.
Dice l’art. 28 – il cuore del comunicato finale – che la Conferenza:
- “Riconosce la necessità di riduzioni profonde, rapide e durature delle emissioni di gas serra in linea con il percorso dell’1,5 gradi”: una ovvietà da Parigi 2015 in poi.
- “Invita le parti a contribuire agli sforzi globali secondo modalità determinate a livello nazionale”: nulla di più evanescente e di meno controllabile.
- “Tenendo conto dell’accordo di Parigi”: da cui sono passati otto anni inutilmente visto che oggi il fabbisogno energetico mondiale è coperto per l’86% da combustibili fossili.
Sempre l’art. 28 dice che occorre:
- “Triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale e raddoppiare la media globale del tasso annuo di efficienza energetica entro il 2030”.
- “Accelerare gli sforzi verso la riduzione graduale dell’energia prodotta dal carbone “unabated”, ovvero senza tecnologia di cattura e stoccaggio”.
Due indicazioni certamente apprezzabili, ma anche questi sono semplici auspici perché nulla si dice su come questi obiettivi debbano essere perseguiti.
Azerbaigian
Dunque un “accordo storico” come lo ha definito Al Jaber? O come ha detto la von der Leyen “L’accordo di oggi segna l’inizio dell’era post-fossile”? n realtà nulla di quanto è stato sottoscritto autorizza a rispondere positivamente e, meno che meno, a considerare credibile la prospettiva di “transitare fuori dai combustibili fossili” entro il 2050.
Una prima verifica potremo farla tra un anno in occasione della COP 29.
Che si terrà dove? Non in un Paese dell’Europa, perché la Russia ha posto il veto, ma in Azerbaigian, un altro grande produttore ed esportatore di petrolio e gas naturale.
Insomma, un bel successo da tutti i punti di vista per il cartello dei petrolieri guidato dal Presidente-Ministro-Amministratore delegato Sultan bin Ahmed Al Jaber.