Si terrà a breve, dal 30 novembre al 12 dicembre, la 28^ edizione della COP-Conferenza delle Parti, vale a dire la riunione annuale dei Paesi che nel 1992 hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il cui obiettivo è ridurre le emissioni di gas serra che sono la principale causa del surriscaldamento globale con tutte le sue conseguenze.
La prima di queste conferenze si è tenuta nel 1995 a Berlino, l’ultima a Sharm el-Sheikh nel 2022 e durante questo periodo i Paesi aderenti sono progressivamente aumentati da 84 fino agli attuali 198, ma i risultati scaturiti dalle ventisette conferenze finora tenute sono stati altalenanti.
Di portata storica è stato il Protocollo di Kyoto in esito alla COP 3 (1997), il primo trattato internazionale sul tema dei cambiamenti climatici entrato in vigore nel 2005 con l’adesione di 120 Paesi.
Poi di straordinaria importanza è stato l’accordo scaturito dalla COP 21 di Parigi (2015) che ha stabilito il limite di aumento del riscaldamento globale entro 2,0 gradi centigradi rispetto all’epoca preindustriale. Un accordo sottoscritto da 196 Paesi che ha vissuto alterne vicende a causa del comportamento degli Stati Uniti, che ne sono usciti nel 2019 durante la presidenza Trump per poi rientrare nel 2021 con la presidenza Biden.
Purtroppo, le conferenze degli anni successivi hanno segnato un notevole rallentamento nella concreta attuazione degli accordi di Parigi e la situazione è stata ulteriormente aggravata dal fatto che la Russia ha introdotto di recente una nuova dottrina climatica che favorisce un forte aumento delle emissioni di gas serra da parte di quel Paese.
In questo complesso e controverso quadro generale si innesta ora una novità a dir poco sconcertante: la prossima conferenza – la COP 28 – si terrà a Dubai e sarà gestita dagli Emirati Arabi Uniti, vale a dire un Paese che è tra i maggiori produttori ed esportatori mondiali di combustibili fossili.
Ma c’è di più, perché come Presidente della Conferenza è stato designato il Sultano Ahmed Al Jaber che è, insieme, Ministro dell’industria e della tecnologia avanzata degli Emirati Arabi Uniti e Amministratore Delegato della Abu Dhabi National Oil Company.
Allora una domanda sorge spontanea: è credibile che ad indirizzare il processo di riduzione delle emissioni di gas serra sia un Paese tra i maggiori produttori al mondo di combustibili fossili? ed è credibile che questo processo venga coordinato da un Ministro che guida la più grande compagnia petrolifera di quel Paese?
Le risposte sono scontate e fanno capire che a Dubai l’enorme problema dei cambiamenti climatici verrà eluso, rimuovendo il fatto che non esiste un’altra soluzione, che non c’è un Piano B perché non esiste un Pianeta B.