Non penserete che il ragù sia una salsa che si prepara e arriva a cottura così, semplicemente. No, il ragù si “consegue” come un titolo di studio raggiunto dopo un percorso lungo e carico di prove intermedie. È chiaro già dal lessico che per i napoletani e per tutto l’universo meridionale legato da questo piatto, il ragù (“o’ rrau”) non è una semplice salsa di carne e pomodoro, è di più. È un rito sacro del quale il cuoco si fa sacerdote, un inno alla tavola della festa, un piatto che richiede ore e ore di cottura a fiamma dolce.
Finora però, nessuno aveva pensato di dedicare una Giornata a questo piatto, tra i più complessi e meditativi della cucina italiana. Oggi c’è una proposta di legge in Regione Campania per l’istituzione della Giornata del Ragù Napoletano nella terza domenica di novembre di ogni anno. L’obiettivo della proposta è ambizioso: “La Giornata, con le iniziative che al suo ricorrere si svolgeranno, si prefigge di tutelare una delle più popolari tradizioni partenopee e campane, testimonianza di un modello culturale il cui cardine è la famiglia, espressione di una tradizione con radici storiche e culturali, simbolo della nostra identità territoriale, con l’obiettivo di lasciare una testimonianza per le future generazioni”.
Come non essere d’accordo? Tuttavia, per i campani e i meridionali in generale, la giornata del ragù è sempre esistita ed è la domenica, quando da ogni casa, da ogni androne di palazzo si irradia una gamma di profumi promettenti: “Fin dalle primissime ore del mattino un tenero vapore si congeda dai tegami di terracotta in cui diventa bionda la cipolla, ed esala le sue nobili essenze il rametto di basilico…” Giuseppe Marotta, grande scrittore e sceneggiatore, ne scrive così nel suo L’Oro di Napoli.
Altro testo di formazione, non solo culinaria ma antropologica, sul “poema di una salsa” è la commedia “Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo De Filippo in cui racconta non solo dei drammi familiari ma anche del ragù napoletano e dei suoi segreti. In quest’opera del 1959 c’è tutta la forza narrativa della cucina, della sua capacità di unire o dividere le generazioni. La commedia ha fatto la storia del teatro italiano ma è divenuta celebre grazie al film di Lina Wertmüller, in cui una irresistibile Sophia Loren discute animatamente con altre signore sul miglior modo di preparare il ragù.
Ottima fonte, dunque, per apprendere la ricetta e sbalordire gli amici con un piatto sontuoso. Se poi voleste anche darvi delle arie, potete buttare lì qualche chicca storica ricordando che questa pietanza fece il suo ingresso a Napoli arrivando dalla Francia negli anni del regno di Ferdinando IV di Borbone e fu Carolina d’Asburgo Lorena, sua moglie e sorella di Maria Antonietta di Francia, a introdurlo nelle cucine napoletane. Tradizione non antichissima, in fondo, ma da allora il ragù sembra rappresentare così tanto l’identità gastronomica di un’area d’Italia da suscitare fiere dispute su quale sia la ricetta filologicamente più corretta. Ogni famiglia ha la sua, di sicuro c’è che si usano diversi tipi di carne, vitello, manzo, maiale, costine o spuntature, e spesso anche la salsiccia. Qualcosa però, accomuna tutte le ricette. La preparazione lunga, avviata a volte di sabato pomeriggio e la “pippiatura”, termine onomatopeico che indica la fase finale e decisiva del ragù, in cui la salsa bolle con lentezza, con il coperchio leggermente aperto in modo da far entrare un po’ d’aria che accarezza, fino al conseguimento, la salsa con i suoi pezzi di carne.
Non appartiene alla ricetta in sé, ma immancabile compagna del ragù è un’eccellente pasta che accoglierà la salsa finita. Il formato più classico secondo tradizione sono gli ziti spezzati, con quelle piccole “virgole” che si creano quando vengono ridotti in pezzi più corti. Immancabile un buon pane casereccio per accompagnare le carni che faranno da secondo e, qui non c’è galateo che tenga, per concludere il pasto con una sacrosanta scarpetta.