Il mondo di oggi ci espone sempre più alla diversità di opinioni. E questa sarebbe una buona notizia. Ma, se consideriamo i giudizi e le prese di posizione sulle guerre in Ucraina e in Israele o su argomenti di forte impatto come l’immigrazione e la crisi economica – si potrebbero aggiungere decine di argomenti come l’Alta velocità, il ponte di Messina, il salario minimo, le pensioni, la giustizia –, spesso assistiamo a una divisione che ricorda quella fra tifoserie calcistiche, col rischio reale di un ricorso alla violenza sul modello ultrà. Come si è arrivati a questo?
Azzarderemo qui una ricostruzione, ovviamente del tutto parziale e tendenziosa. Prima che la caduta del muro sancisse il “liberi tutti”, le opinioni personali erano spesso irregimentate e filtrate dai partiti tradizionali, almeno qui da noi in Italia ma non solo. Il declino dei partiti di massa e dei blocchi sociali, poi, è stato accompagnato da fenomeni come l’indebolimento della scuola e delle università, che in passato costituivano un’eccellenza mondiale e un crogiuolo di pensiero “alto”, l’ignoranza crescente e la rincorsa al facile arricchimento (pensiamo all’illusione degli “sghei” nel nordest e al relativo abbandono scolastico), il vero e proprio boom delle televisioni commerciali e la discesa in campo di Berlusconi che hanno imposto nell’immaginario collettivo un modello disimpegnato, spesso qualunquista se non antipolitico (antipolitica che è poi diventata il segno distintivo di Beppe Grillo e del movimento Cinque Stelle). A peggiorare il tutto ci hanno pensato il declino demografico, la fuga di cervelli all’estero e la comparsa di un fenomeno dirompente come l’immigrazione clandestina che ha fatto emergere il razzismo latente nelle aree più ricche del paese, nonché Mani Pulite, che ha dato il colpo di grazia all’egemonia culturale dei partiti politici.
È da allora che hanno iniziato ad affermarsi i giornali di opinione (prima di allora c’erano solo il Manifesto e il Giornale di Montanelli), letti cioè non per informarsi ma per trovare rassicurazione e conforto alle proprie opinioni. Si è trattato di un passaggio assai delicato, perché nel frattempo molti giornalisti perdevano la bussola professionale e si svendevano a tv private e giornali che non hanno mai tenuto conto del conflitto di interessi e delle norme deontologiche. L’argomento più forte a loro discolpa è che nessun editore in Italia è immune da interessi diversi da quelli editoriali, che la Rai è sempre stata un baraccone in mano ai partiti e che l’informazione è tutta drogata. Il che è vero ma non giustifica la loro vacillante onestà intellettuale.
Poi è entrato in scena il web ed è cambiato tutto il modo di fare e di ricevere informazioni, facendo perdere peso e prestigio ai giornali cartacei e alla televisione. Questi ultimi, per non perdere il loro pubblico, sono stati costretti ad alzare il tono, anche a costo di mestare nel torbido, di demonizzare l’avversario e di assecondare la voglia di rissa. Questo però non ha fermato il crescente ricorso all’informazione diretta su web, con tutto ciò che comporta in termini di disinformazione e uso scientifico delle fake news. Ne abbiamo continue conferme dalle guerre in corso in Ucraina e in Israele (vedere anche l’articolo di Luigi Gravagnuolo pubblicato su Gente e Territorio il 2 novembre 2013). Ma non si tratta certo di una novità.
Dalle false informazioni che hanno determinato l’esito di grandi battaglie, ad esempio quella di Lepanto di cui parla lo storico Alessandro Barbero (curiosamente divenuto fiero esponente no-vax), all’invasione dell’Iraq in seguito alla bufala delle armi di distruzione di massa, le fake news hanno sempre avuto un ruolo importante nella storia dell’uomo. Però, come aveva ben compreso Umberto Eco, il loro impatto è cambiato radicalmente con l’irruzione sulla scena di Internet e dei social network, che hanno dato inizio all’era delle informazioni e delle disinformazioni in tempo reale. L’impatto di queste ultime dopo l’esplosione della pandemia da Covid 19, poi, ha acquisito un’importanza tale da convincere l’Organizzazione mondiale della Sanità a coniare un nuovo termine: infodemia. Così può essere definita la disinformazione che si diffonde rapidamente attraverso siti di informazione online e social media, e che – nel caso della pandemia – ha posto una seria minaccia alla salute dei cittadini.
A questo riguardo vale la pena soffermarsi su alcuni aspetti che riguardano l’uso del mezzo piuttosto che il contenuto delle notizie, vere e false che siano. In primo luogo appare evidente che buona parte dei frequentatori dei social network amano rafforzare le proprie convinzioni piuttosto che informarsi ad ampio spettro, verificare le fonti e crearsi un’opinione autonoma basata su dati reali. Se la pensi in un certo modo, c’è poco da opporre fatti concreti. Nessuno ti farà mai cambiare un’idea che non ammette dubbi o ripensamenti. L’aspetto più grave, però, è l’intolleranza nei confronti di chi non la pensa come te. Secondo il “Barometro dell’odio” pubblicato annualmente da Amnesty International, durante la pandemia da Covid 19 i discorsi di odio sono aumentati del 40 per cento e ad essere aggrediti sono stati coloro che ricoprono la funzione di capro espiatorio, tra i quali in primo luogo i migranti e i rifugiati, considerati untori del contagio, e coloro che godono di presunti privilegi (Il barometro dell’odio 2021, Amnesty International, https://www.amnesty.it/barometro–odio/). Molte ricerche condotte durante la pandemia fanno notare che i territori in cui sono maggiori le disuguaglianze ed è più alta la percezione di insicurezza occupazionale è più alto anche il volume di tweet violenti e discriminatori. E all’opposto l’alto livello di benessere e di istruzione della popolazione fa da argine alle aggressioni offline e agli atti di vandalismo.
Questo porta a una prima conclusione: la maggior parte delle fake news pubblicate sui social, fatte salve alcune significative eccezioni, circolano nella stessa tipologia di utenti. Inoltre i produttori di fake news sono reticenti a condividere i propri link all’interno di spazi pubblici dove possono essere maggiormente soggetti a interventi di debunking (il debunking, secondo la definizione della Treccani, è “l’opera di demistificazione e confutazione di notizie o affermazioni false o antiscientifiche, spesso frutto di credenze, ipotesi, convinzioni, teorie ricevute e trasmesse in modo acritico”). Dunque, buona parte delle fake news circola in ambienti privati e difficilmente accessibili, come gruppi chiusi di Facebook o Telegram. Il che rappresenta una vera e propria rivoluzione.
Come è noto, l’allarmismo legato alla diffusione delle fake news ha spinto le piattaforme social, anche su pressione di una parte dell’opinione pubblica, a esercitare un maggiore controllo sui contenuti pubblicati. Lo aveva fatto Twitter prima che lo acquistasse Elon Musk cambiandogli il nome in X e eliminando ogni restrizione, e lo ha fatto anche Facebook, che ha imposto forti controlli sui contenuti in seguito allo scandalo di Cambridge Analytica (scandalo, come si ricorderà, scoppiato in seguito alle denunce del New York Times e di Observer nel 2018, e legato alla gestione dei dati per influenzare le campagne elettorali). La situazione però non è migliorata, anzi, il pubblico sta perdendo sempre più la capacità di discernere il vero dal falso e di crearsi autonomamente un giudizio. Del resto è difficile che ciò avvenga se le fonti di informazione – e questo accomuna giornali, web e televisioni – sono inquinate all’origine dalla loro impostazione ideologica e se fanno ricorso a un linguaggio cifrato che pochi sono in grado di decodificare: ad esempio demonizzando l’avversario in base all’aspetto fisico, a ciò che ha detto o fatto in altre occasioni senza entrare nel merito delle sue prese di posizione; distinguendo i morti di serie A e serie B quando ad esempio si ricostruiscono le storie private, le relazioni e i sogni delle vittime italiane (e/o occidentali) di un incidente, di un attentato o di una guerra, mentre per quelle di altri continenti ci si limita a una fredda elencazione di numeri, come avviene usualmente quando un barcone affonda nel Mediterraneo con il suo carico di umanità e di bambini. E ancora: identificando l’aggressore in base alla nazionalità (marocchino, algerino, tunisino) o condizione sociale (immigrato, senza fissa dimora) se la vittima è italiana e questo non vale al contrario; e, ancora, facendo uso di artifici retorici (“quelli che dicono sempre e non dicono mai…”, “dove sono finiti quelli che manifestavano là e non manifestano qua…”) senza mai citare un numero o un nome, perché questo serve a rafforzare i propri argomenti anche se sono privi di riscontro reale.
Il dramma è che i leader politici, invece di dare il buon esempio, lanciano segnali non di comprensione e apertura di dialogo ma di ulteriore divisione e frattura. L’edizione del “Barometro dell’odio” 2022 dedicata alla campagna elettorale in Italia ed effettuata monitorando i profili social – Facebook e Twitter – dei candidati ai collegi uninominali di Camera e Senato di tutte le formazioni politiche, afferma che “alcune forze politiche si sono servite di stereotipi e incitazioni all’odio per fare propri diffusi sentimenti populisti, identitari e xenofobi, promuovendo la diffusione di un linguaggio incendiario, divisivo, che discrimina anziché promuovere l’eguaglianza, che pensa che minoranze e gruppi vulnerabili siano una minaccia e che i diritti non spettino a tutti”. Sono tutti segnali che fanno leva sulla paura e sono espressione di una fragilità ideologica di fondo. Ma, se l’obiettivo è guadagnare un consenso effimero, l’effetto di lungo periodo è quello di approfondire il solco tra persone, generazioni, modi di pensare. E di ragionare.