Lo scorso 28 ottobre 2023, nel complesso monumentale di Santa Maria La Nova di Napoli, il prof. Alessandro Bianchi, Direttore della scuola nazionale di rigenerazione urbana, ha tenuto una lectio magistralis dal titolo: “La rigenerazione urbana: un nuovo modo di fare urbanistica”, rivolta agli amministratori locali under 35.
Questi gli argomenti trattati:
- Il concetto di rigenerazione urbana.
- Il patrimonio edilizio dismesso.
- Il requisito della sostenibilità.
- Casi esemplari e ferite aperte.
Vi proponiamo una sintesi della lectio a puntate, suddivisa per argomenti.
- Il concetto di rigenerazione urbana
Come sappiamo il termine rigenerazione urbana è ormai entrato pervasivamente nel linguaggio delle discipline che si occupano di città, territorio, ambiente e paesaggio, così come nella pratica degli interventi urbanistici da parte delle amministrazioni pubbliche, in prevalenza Comuni.
Peraltro, il consenso appare ampio anche da parte di autorevoli soggetti del mondo della ricerca e delle professioni.
Ad esempio, da parte dell’AUDIS-Associazione Aree Urbane Dismesse che nella sua “Carta della Rigenerazione urbana del 2013” si dice convinta che “le nuove condizioni entro cui si dovrà operare e le nuove sfide che si dovranno affrontare implichino un modo del tutto nuovo di immaginare la crescita della città futura”.
Ed è anche l’obiettivo perseguito dal CNACCP che nel “Manifesto per la rigenerazione urbana afferma: “Il tema della rigenerazione urbana sostenibile (…) è, per gli architetti italiani, la questione prioritaria nelle politiche di sviluppo dei prossimi anni. Questione da intendersi non solo come materia rilevante nella pratica urbanistica, ma come una politica per uno sviluppo sostenibile delle città”.
Tuttavia, nonostante questo diffuso uso e consenso, il significato del termine “rigenerazione urbana” non è stato ancora definito in modo univoco, come dimostra il fatto che viene correntemente usato in analogia ad altri termini preesistenti – recupero, ristrutturazione edilizia, ristrutturazione urbanistica, restauro, risanamento conservativo – il che determina il permanere di una confusione che impedisce di introdurre la rigenerazione urbana come nuova e diversa metodologia urbanistica.
Dunque va chiarito in via preliminare che per rigenerazione urbana intendiamo un processo finalizzato a conferire ad un oggetto urbano un genere diverso da quello che aveva in origine, che per svariati motivi è stato dismesso e per il quale non vi è volontà o possibilità che venga ripristinato.
Dove per oggetto urbano facciamo riferimento ad un’ampia e variegata moltitudine di manufatti presenti all’interno e all’intorno delle città: fabbriche, caserme, stazioni ferroviarie, chiese, centrali elettriche, colonie marine, miniere, mercati generali, teatri, impianti sportivi, sale cinematografiche e mille altre cose ancora.
E dove per genere intendiamo, nei termini più generali, l’insieme dei caratteri peculiari e distintivi di una determinata categoria.
Detto in termini esemplificativi: se riqualifichiamo una piazza, se ristrutturiamo un edificio, se restauriamo una chiesa, facciamo operazioni certamente utili ma non si tratta di rigenerazione perché il genere finale rimane lo stesso.
Viceversa, se una fabbrica di automobili diventa un centro polifunzionale (il Lingotto a Torino), una centrale elettrica diventa un museo (la Montemartini a Roma), una caserma diventa un quartiere modello (Vauban a Freiburg), una stazione ferroviaria diventa un centro espositivo (la Gare d’Orsay a Parigi), questa è rigenerazione urbana.
Per quanto riguarda il quadro normativo, la situazione è particolarmente critica sia a livello nazionale che regionale.
A livello centrale l’unico riferimento è il DDL “Misure per la rigenerazione urbana” che nell’Art. 1 poneva correttamente l’obiettivo generale da perseguire: “Nell’ambito della normativa nazionale in materia di governo del territorio, individua nella rigenerazione urbana lo strumento fondamentale di trasformazione, sviluppo e governo del territorio senza consumo di suolo”.
Certamente interessanti appaiono anche le indicazioni sugli strumenti da porre in essere per sostenere l’attività di rigenerazione: il “Programma nazionale”, il “Fondo di dotazione”, la “Cabina di regia”, la “Banca dati del riuso”, il “Piano comunale della rigenerazione”.
Ma poi fin dall’Art.2 il campo di applicazione della legge viene ampliato a dismisura parlando di “azioni di rinaturalizzazione dei suoli consumati in modo reversibile, con il recupero dei servizi ecosistemici persi tramite la de-impermeabilizzazione, la bonifica, l’innalzamento del potenziale ecologico-ambientale e della biodiversità urbana”.
E’ evidente che si tratta di azioni di grande importanza ma che vanno ben al di là del campo di pertinenza della rigenerazione urbana che in questo modo continuerà a non avere ciò di cui ha assoluto bisogno, vale a dire norme specifiche che ne definiscano l’identità, i contenuti e la latitudine operativa.
Peraltro, il DDL è decaduto con la fine della legislatura e ora siamo in presenza di ben 7 nuovi DDL che hanno appena intrapreso il percorso parlamentare.
A livello regionale il quadro normativo è altrettanto critico. Solamente dieci Regioni hanno inserito la rigenerazione urbana fin dalla titolatura delle loro leggi urbanistiche, il che significa che altre dieci non hanno questo esplicito riferimento. E comunque anche quando il riferimento esiste, il nodo centrale della questione resta irrisolto, perché anche quelle leggi presentano le medesime carenze riscontrate nelle proposte nazionali.
Infine, non si può non rilevare che lasciare le norme sulla rigenerazione urbana alle Regioni in assenza di un quadro di riferimento nazionale comporterebbe le medesime conseguenze negative causate dalla modifica del Titolo V della Costituzione.