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Tra Israeliani e Palestinesi vincerà ancora l’odio

by Alessandro Cardente
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foto by Tgcom24

 

Quello che si è delineato già nei primi due giorni di conflitto è ciò che passa attraverso la peggiore arma possibile di noi esseri umani: l’odio tra popoli.

Una guerra fisica, di potere, che diventerà economica, poi di religione, pregiudizio e di scontro tra civiltà. Probabilmente colma di ideologia e di prepotenze.

Perché la guerra, in fondo, è il proseguimento di una linea politica fallita, che non porta i suoi risultati e che procede quindi attraverso le armi e la forza per imporre la propria supremazia.

Personalmente, mai come in quest’ultima dolorosa vicenda avevo deciso di non prendere posizioni, di essere il più possibile laico e svincolato da eventuali attrazioni ideologiche di ogni tipo.

Non sono un analista internazionale ma un cittadino tra tanti, che approfondisce per cercare di capire le cose per se stesso… ma non sempre ci riesce.

Mai come per la questione israeliano-palestinese servirebbe una riflessione il più possibile incondizionata, indipendente e libera da pregiudizi o interessi.

Insomma, intellettualmente onesta!

I rapporti tra israeliani e palestinesi sono eredi di articolate questioni contrassegnate da vistose complicazioni e contraddizioni, da infiniti mancati tentativi di pace da entrambe le parti.

Questo impone certamente il bisogno, comunque, di una netta e determinata condanna all’aggressione crudele di Hamas e alla ferocia del terrorismo, di qualunque terrorismo sanguinario esso sia.

Non possiamo però credere che ogni palestinese sia un seguace di Hamas.

Perché questo radicale movimento, che dal 2006 di fatto governa e controlla la Striscia di Gaza, non esercita un principio di governo democratico, non riconosce diritti politici, civili e ancor meno di cittadinanza. E primi fra tutti a scontarne le conseguenze sono proprio gli stessi palestinesi.

Una popolazione che in questo momento è doppiamente ostaggio: dell’offensiva di Netanyahu da un lato e del sacrificio che in questo scontro Hamas ha messo volutamente in conto per il popolo di Gaza.

Questo però, non può vietarci di fare alcune riflessioni sulla strategia “bendata” del governo Netanyahu, sulle scelte e gli approcci discutibili che hanno incendiato i sopiti e fragilissimi equilibri in Medio Oriente.

La divisione dell’opinione pubblica e le proteste contro l’attuale governo prima del recente conflitto, hanno offerto un volto meno conosciuto della società israeliana.

Un leader internazionale, quello dello stato di Israele, mai ricevuto dalla Casa Bianca e tenuto a distanza con molto imbarazzo dai governi europei.

Un primo ministro che neanche attraverso questa che si delinea una lunga, terribile e pericolosa guerra, riuscirà a recuperare credibilità e autorevolezza nazionale né tanto meno internazionale.

Sempre dal mio inesperto punto di vista di semplice cittadino, una questione proprio non riesce a confortarmi nella risposta, anzi accentua un controverso e legittimo dilemma: cos’è accaduto ai servizi segreti di Israele ritenuti da sempre tra i migliori del mondo?

Com’è possibile che tutta l’organizzazione preparatoria dell’attentato, durata pare due anni, e la consegna delle munizioni ad Hamas sia potuta passare inosservata agli israeliani oltre che ai sofisticati servizi di intelligence americani e inglesi?

Sarà legittimo chiedersi come siano arrivati a Gaza i missili non essendo minute lapis da taschino? Tramite mare o tramite terra?

Consideriamo, inoltre, quanto precisi, evoluti e rapidi siano i sistemi e la tecnologia interconnettiva in questo periodo storico. Basti pensare alle perfette informazioni visive riprodotte dai satelliti vaganti sopra i cieli dell’intero pianeta.

Mai come in questo momento, chi rappresenta lo stato e la società israeliana dovrebbe apparire, nella sostanza, di alto profilo politico e garante non solo per il proprio popolo ma, forse, per le sorti del mondo intero.

Purtroppo, il primo ministro Benjamin Netanyahu non incarna questa figura.

L’istinto bellico – se pur inizialmente giustificato all’impatto emozionale, dalla rabbia e dall’orgoglio; dallo sgomento e dal dolore della perdita dei propri civili trucidati; dal dovere di proteggere il proprio Paese, la propria democrazia, la propria identità – ha bisogno anche di assoluta lucidità, autocontrollo e pianificazione.

Chi è chiamato a guidare un paese democratico per garantire le scelte migliori deve saper imporre a sé e agli altri una disciplina al proprio istinto.

Perché la differenza di risposta si esprime proprio in questi termini di condotta tra uno statista democratico e il capo di un’organizzazione terroristica.

Soprattutto va imposta una linea invalicabile oltre la quale quello che regna rimane il valore e la protezione delle vite umane innocenti da ambo le parti. Che siano israeliane, che siano palestinesi!

Quello che vediamo in queste ore è come il preludio di nuovi errori e di quelli perpetrati da oltre settant’anni, e la responsabilità di Benjamin Netanyahu e del suo attuale governo verso il proprio Paese è elevatissima.

Non solo per difenderlo nell’immediato dagli attacchi bellici di Hamas, ma per qualcosa che nel futuro possa suggellare la differenza dell’immagine e dell’empatia percepita di Israele nel mondo. Perché una deriva sanguinaria rischia di condannare, ancora una volta, anche la nuova generazione israeliana ad ostilità e pregiudizio.

E c’è una cosa che Israele, il mondo tutto, anche quello più ostile, deve accettare incondizionatamente: la pace, il rispetto, il valore della vita condiviso, non possono prescindere dalla questione palestinese mai risolta.

Hamas è un tarlo, un tumore che deve, e andava, estirpato già prima che si appropriasse della causa palestinese, magari in favore della laica Al-Fatah che se fosse stata sostenuta internazionalmente avrebbe, forse, creato una situazione molto diversa.

E su questo domani bisognerà tornare a riflettere perché oggi quello che nel reticolo di Gaza è necessario è la massima attenzione alla tutela della vita e della salute dei civili, ma in prospettiva non si potrà evitare di tener conto della presenza di situazioni aberranti, a partire dal fatto che a Gaza il cibo, l’acqua, il gas e l’energia sono controllate da Israele.