La foto che apre questo articolo ritrae la Casina Dell’Aquila, edificio tardo settecentesco costruito in più riprese e poi abitato alla fine del secondo decennio dell’Ottocento da un imprenditore creditore dello Stato, il cui Erario, in quei due decenni, passò di mano tre volte. Oggi la Casina Dell’Aquila rimane il simbolo visibile – di giorno e di notte – della rinascita degli Scavi di Pompei, parte essenziale del Parco Archeologico di Pompei e della nuova Grande Pompei, coincidente con la Buffer Zone Unesco di recentissima individuazione.
Intanto però segnaliamo una notizia di qualche giorno fa, la quale non ha avuto – a nostro modesto avviso – un’adeguata rispondenza ed eco sulla grande Stampa, sempre pronta però a precipitarsi sulle “scoperte” che si verificano a Pompei, negli ormai rari cantieri ancora in corso, dove ancora si pratica più lo Scavo che il Restauro archeologico. Ma stavolta la notizia è davvero grande, sotto il profilo sociale, piuttosto che quello artistico e archeologico.
Essa segna un nuovo, anche se speciale traguardo, ascrivibile esclusivamente, senza dubbio alcuno, all’attuale gestione del Parco Archeologico di Pompei, a trazione zuchtriegelliana, se ci è consentita l’aggettivazione neologistica del cognome del Direttore Gabriel Zuchtriegel.
Il Parco Archeologico di Pompei si è aperto infatti ad una più ampia forma di inclusione sociale, attraverso il protocollo d’intesa siglato con i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale Carlo Berdini, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli Patrizia Mirra, e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello. All’evento sono intervenuti anche il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Campania Lucia Castellano e il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo.
Tale protocollo consentirà ai detenuti di contribuire in attività di lavoro di pubblica utilità, non retribuita, presso i siti archeologici del Parco, in esito all’esperienza positiva, tuttora peraltro in corso, che vede il Parco archeologico di Pompei già sede per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità per “imputati non ancora sottoposti a processo”.
E qui non possiamo non ricordare il grande Alberto Sordi in una delle sue più straordinarie interpretazioni – oltretutto drammatica – nel film di Nanni Loy dal titolo: “Detenuto in attesa di Giudizio”. Una denuncia spietata di certa normativa giudiziaria che – sopravvivendo alle varie e inutili “riforme” – sembra creata apposta per fare espiare le colpe al reo già prima della detenzione e, quindi, del possibile suo riscatto attraverso la pena.
Sull’argomento il direttore del Parco Gabriel Zuchtriegel ha dichiarato: “Questo protocollo – come già il precedente sottoscritto con il Tribunale di Torre Annunziata – dimostra quanto la cultura, attraverso le istituzioni museali, possa avere un ruolo importante nelle attività di reintegrazione sociale, o anche semplicemente di avvicinamento al patrimonio culturale. Tali progetti, come altri avviati dal Parco, di inclusione del territorio e delle scuole, fanno sì che l’archeologia possa contribuire concretamente a cambiare la vita delle singole persone, e dunque di una intera società”.
L’incontro si è tenuto lunedì 16 ottobre e, presso l’Auditorium degli scavi, c’è stata l’illustrazione dell’accordo e la firma del protocollo della seconda Convenzione siglata in materia di esecuzione dei lavori di pubblica utilità, senza retribuzione, nei siti archeologici, di cui il Parco di Pompei è pilota fino a oggi. L’obiettivo comune è favorire il reinserimento occupazionale e sociale dei soggetti sottoposti a procedimenti penali e rendere la detenzione un’occasione di formazione e recupero, grazie alla straordinarietà dei luoghi di cultura, funzionanti come ulteriori elementi di stimolo verso la riabilitazione personale e professionale.
I soggetti saranno individuati, in un numero massimo di 5 l’anno, tra coloro che hanno manifestato nel corso della loro pena una buona condotta, a cura di un’apposita commissione composta da figure professionali delle diverse istituzioni sottoscriventi l’accordo. L’esiguità del numero, ci lascia in verità, alquanto perplessi considerato il ricco ventaglio dei lavori possibili, dalla Manutenzione del verde alla Manutenzione ordinaria del sito, fino alla attività di digitalizzazione e archiviazione documentale presso gli uffici amministrativi.
Sono previsti anche corsi di formazione previa, compresa la materia di sicurezza e protezione, prima di procedere ai lavori; ma l’effettiva acquisizione di competenze lavorative potranno essere sfruttate dal detenuto al termine della pena, per un effettivo reinserimento nel mondo del lavoro. La casa circondariale si impegnerà nel garantire la sorveglianza in situ di tutti soggetti ammessi liberamente allo svolgimento dei lavori di pubblica utilità e alle coperture assicurative di legge. Il protocollo ha una durata di due anni, eventualmente rinnovabile. Non possiamo che fare gli auguri di un buon successo per la iniziativa, anche se ribadiamo che ci lascia interdetti il troppo esiguo numero dei detenuti ammessi al godimento di un tale significativo protocollo, inferiore a quello degli organismi coinvolti. E la chiudiamo qui.
A questo punto il lettore però si si sarà chiesto che cosa c’entri la Casina Dell’Aquila, scritta però rigorosamente con la “D” e la “A” maiuscole.
Ebbene, nonostante che la definizione di Casina dell’Aquila, per quel bell’edificio tardobarocco incastonato in un impaginato già neoclassico risuoni di echi romantici e grandiosi, da letteratura storico-fantastica d’avventura, chi scrive – che ne volle e curò tenacemente il Recupero – precisa che il Dell’Aquila, con la “D” e la “A” rigorosamente maiuscole, è realmente esistito.
Egli era semplicemente il proprietario della Casina, un fabbricato “moderno” ubicato in piena area archeologica pompeiana, inconsapevolmente, ma lungo la antica direttrice campestre che dalla costa Torrese-Stabiese menava verso Nola, attraverso la “Croce di Pasella”, l’incrocio stradale con la ex Statale 18, già Via Regia delle Calabrie, che segna il confine tra l’odierna Pompei e Torre Annunziata. E’ così oggi, più o meno come ieri…
E, dunque, non ci sono “Aquile” in gioco, con buona pace degli aspiranti “Indiana Jones”.
Era stato, cioè, il Sig. Dell’Aquila, cittadino casertano, “figlio del fu Paolo”, l’acquirente che aveva comprato “in pieno dominio” per Rogito del Notar Emmanuele Caputo, nell’anno 1817, l’intero fondo agricolo, già detto Fondo D’Amora, o anche D’Ammora, precedentemente. Il Dell’Aquila vantava infatti verso lo Stato un credito di circa quattrocento Ducati del Regno di Napoli per “Lavori di Scavo Archeologico”, da lui condotti in qualità di Appaltatore fino al maggio dell’anno 1815.
Cosa leghi fortemente il Dell’Aquila e la Casina omonima al Protocollo di intesa, siglato pochi giorni fa, è presto detto: le maestranze assunte dal Dell’Aquila erano infatti detenuti, allora ancora detti “galeotti”, utilizzati a decine, anzi a centinaia in alcuni periodi, nel lungo dipanarsi dello Scavo pompeiano.”.
La intenzione del Dell’Aquila era di impiantare nell’immobile con i suoi “commodi rurali” una accogliente Locanda con Osteria, destinata a far concorrenza alla già esistente Taverna del Lapillo, di cui appaiono ancora oggi i resti, del tutto dimenticati, ubicati a poca distanza, nell’attuale Piazza Porta Marina Inferiore, lungo la via Regia delle Calabrie. Ma poi della iniziativa non si sa più nulla, stando alle fonti archivistiche.
Sarà stata forse abusiva? E poi repressa? Come si vede: nulla di nuovo sotto il Sole dell’Universo Pompei, vivo e pulsante, comunque e sempre, nell’ultimo quarto di Millennio.