In questo mese di ottobre del 2023 si chiuderà l’Anno Giubilare Longhiano, iniziato il 1° ottobre 2022, che terminerà il prossimo 31 ottobre 2023 data ormai imminente.
Nelle varie celebrazioni è stata rivisitata tutta l’opera di Carità straordinaria di un grande uomo di fede, che da visionario illuminato visse i propri tempi proiettandosi in anticipo verso il futuro. Il Santuario di Pompei è stato l’epicentro delle manifestazioni celebrative, che però si sono svolte un po’ dappertutto nel mondo.
Alcune parole scritte da Mons. Tommaso Caputo, Arcivescovo Prelato di Pompei, il quale invita in una sua lettera a “riscoprire lo spirito di quel tempo”, ci hanno ispirato questo breve articolo. Lo abbiamo fatto laicamente, perché l’avvocato Bartolo Longo fu anche uomo del proprio tempo, un uomo del Sud profondo, vissuto e formatosi nella sua Capitale Napoli, di cui visse il tracollo generato dalla unificazione della penisola italiana, la celebrata “Unità d’Italia”, pilotata dall’Inghilterra, grande potenza di allora. Essa è costata al Sud milioni di emigrati e, soprattutto, la repressione militare e giudiziaria violenta del fenomeno del cosiddetto Brigantaggio, che praticamente si chiude nell’anno 1870, proprio in questi giorni di ottobre, precisamente il quattordici, quando a Napoli, presso l’Orto Botanico borbonico, viene assassinato Pilone in un agguato poliziesco, mentre si apre però la “Questione Meridionale”, per certi versi non ancora pienamente risolta. Ma appena due anni prima dell’arrivo di Bartolo Longo a Pompei, l’Otto di ottobre dell’anno 1872.
Ricorriamo quindi – ringraziando l’Editore Flavius di Pompei per la disponibilità – alla riproduzione, per stralcio quasi integrale, di alcune pagine tratte dal libro edito nel 2021, dal titolo: “Pompei. Misteri del Tempio di Iside. Le radici liquide della Terza Pompei”.
Cap. Primo – La città nuova e il suo territorio. Pagg.41 e seguenti:
“(…) Bartolo Longo era all’inizio noto soltanto come un solerte avvocato pugliese arrivato da Napoli per la prima volta a Valle di Pompei nel 1872 (ndr: Pompei diventa Comune soltanto nel 1928) per amministrare beni dei Conti De Fusco.
Era sceso alla Stazione “Pompei Scavi” delle Regie Ferrovie Meridionali, non più borboniche ma postunitarie, quindi “italiane”. L’antica stazioncina, gradevole reliquato paleoferroviario in stile neoclassico pompeiano, risalente al 1844, è ancora esistente, lungo i binari ex FFSS, nella campagna a valle di Via Plinio, all’altezza della piazza Porta Marina inferiore.
Al suo arrivo a Pompei l’avv. Longo trovò presso la Stazione un paio di valpompeiani che erano andati a riceverlo. Erano coloni dei conti De Fusco, armati di fucili da caccia. In tutta l’area vesuviana era ancora fresco il ricordo delle audaci imprese del brigante Tonino ‘o Pilone, al secolo Antonio Cozzolino, grande figura del Brigantaggio meridionale postunitario, autore di alcuni clamorosi sequestri di persona, assassinato in un agguato qualche anno prima a Napoli nei pressi dell’Orto Botanico dalla polizia savoiarda.
Pilone, così chiamato per la sua accentuata villosità, era uno scalpellino di origine torrese, ma nato e vissuto a Boscotrecase.
Egli aveva militato nell’esercito borbonico sull’Aspromonte calabrese ed era stato poi impiegato in Sicilia contro le truppe garibaldine. Nella battaglia di Calatafimi si rese protagonista di un’azione eroica, strappando da solo dalle mani di un alfiere garibaldino il vessillo. Il soldato Antonio Cozzolino fu per questo premiato con medaglia al valor militare e promosso sergente. Caduto il Regno delle due Sicilie fu tra i legittimisti che si batterono per la causa di re Francesco II Borbone, bollati come briganti. Datosi alla macchia, Pilone aveva imperversato nell’intera area vesuviana risultando imprendibile, nonostante azioni temerarie che lo avevano portato a occupare manu militari interi comuni.
Egli aveva lasciato tracce di sé anche a Pompei. Ma molto discrete.
La popolazione non lo temeva, anzi. Si sapeva ad esempio che Pilone penetrava notte tempo negli scavi pompeiani per rifornirsi di qualche reperto archeologico di pregio di cui far dono ai potenti, lealisti e fedeli alla causa monarchica borbonica. Il brigante vesuviano aveva occasione di frequentarli nelle sue non infrequenti “trasferte” napoletane oppure nelle trasferte romane, più rare e rischiose, fatte per la Casa Reale in esilio. Esse erano da lui condotte con assoluta segretezza in barba alla polizia savoiarda che gli dava la caccia da circa un decennio.
Ma gli scavi pompeiani, a lui ben noti insieme agli anfratti che li caratterizzavano, con le loro silenti atmosfere notturne erano anche complici delle sue incursioni amorose presso l’Hotel Diomede, ubicato sul confine dell’area archeologica demaniale penetrabile facilmente attraverso il Canale Sarno, come vedremo in seguito. L’Hotel era nato dalla trasformazione della Taverna del Lapillo, attiva nel sito dal 1748, quando don Carlos di Borbone diede avvio agli scavi archeologici sulla collinetta della Civita.
In origine luogo di sosta per carrette e carrozze, la taverna con i terreni annessi fu espropriata da re Gioacchino Murat e, dopo varie vicissitudini, pervenne in fitto a un imprenditore che la trasformò in albergo, con il nome di Hotel Bellevue. In seguito l’hotel assunse il nome di Hotel Diomede, incastonato nel confine dell’area demaniale degli Scavi e con il fronte sulla Via Regia della Calabrie, ove accoglieva i turisti stranieri contesi dal frontistante Hotel Suisse, più moderno e confortevole, realizzato da uno svizzero nella seconda metà dell’Ottocento.
Negli anni del brigantaggio l’hotel Diomede apparteneva a un ricco albergatore napoletano.
E si racconta che Pilone – pezzo d’uomo villoso e forte, brigante e bandito – frequentasse nottetempo la moglie dell’albergatore, gran donna della buona società partenopea, godendone le simpatie, dopo avere raggiunto l’Hotel direttamente dall’interno degli scavi al calar della notte, per poi scomparire alle prime luci dell’alba forse ancora attraverso il Canal Sarno.
Altra sua tappa pompeiana clandestina, un nascondiglio ove passare la notte al centro di Valle, poco dopo l’inizio del tratto per Scafati della via Regia. Lo accoglieva una cantina scura e appartata con un suo ingresso postico garantito da una scala che dava verso l’aperta campagna.
La cantina, oggi ancora esistente, era quasi frontistante alla vecchia Taverna di Valle e apparteneva a un’antica famiglia valpompeiana.
Ma Pilone era già morto ormai da un paio d’anni – ucciso a Napoli in un agguato poliziesco – quando l’avvocato Longo arrivò a Pompei.
Lui e la sua improvvisata scorta arrivarono quindi senza problemi a Valle di Pompei, dopo avere percorso ‘o stritt’ ‘e ll’anfiteatro, cioè la gola di quel percorso che si snodava tra alti cumuli terrosi prodotti dagli scavi archeologici in corso ormai da circa un secolo e mezzo lungo la via Regia delle Calabrie, presso l’Anfiteatro, chiamato anche la “scodella” per la sua forma, ben leggibile da sempre con le sue parti sommitali fuori terra.
I cosiddetti “cumuli borbonici” erano vere e proprie collinette di terra riportata, alte al massimo una decina di metri e chiamate dai Valpompeiani ‘e muntune”.
Superati ‘e muntune dell’Anfiteatro, dopo qualche centinaio di metri, si arrivava a Valle di Pompei, anzi mmiéze Valle dove, come sappiamo, la famosa Taverna di Valle offriva rustica ospitalità ad avventori e turisti, rapiti dalla feracità della campagna pompeiana.
Essa nel Novecento – nel periodo compreso tra le due guerre mondiali – vide i campi coltivati a ortaggi occupare man mano tutto il territorio agricolo disponibile.
Alberi di noci, noccioli, gelsi, agrumi, peri, meli, fichi e sorbi – ma anche viti in qualche caso – cedettero spazio alla vegetazione ortiva, più impegnativa, ma anche più remunerativa del lavoro agricolo, in un’Italia che si avviava a cambiare.”
Oggi – in una Italia cambiata tanto, ma non sempre in meglio – occorre però: “…ritrovare il gusto di investire sulla speranza”, come bene ha scritto nella sua lettera l’Arcivescovo prelato pompeiano.
1 comment
Perché l’8 ottobre? da dove scaturisce questo dato?
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