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Gli 80 anni delle Quattro Giornate di Napoli

by Stefano Sorvino
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Si celebra quest’anno l’ottantennale delle “Quattro giornate” di Napoli (27-30 settembre 1943), uno degli episodi più eroici ed esaltanti della storia contemporanea del capoluogo partenopeo. Fu il primo grande successo della nascente Resistenza “ante litteram”, non ancora organizzata come tale, all’occupante tedesco. Una insurrezione popolare e spontanea che consentì alle forze alleate di trovare al loro arrivo (il 1° ottobre 1943) la città già liberata. Ciò le valse la medaglia d’oro al valor militare.

Forse il passare del tempo tende a sbiadire la consapevolezza della loro rilevanza nel calendario della memoria collettiva, ma quelle valorose giornate meritano di essere rievocate e soprattutto, oggi più che mai, ripensate nel loro inesausto messaggio di eroismo civile.

Il 3 settembre del ‘43 il “governo del Sud” post-fascista, presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, sottoscriveva l’atteso e travagliato armistizio con gli anglo-americani che, secretato per alcuni giorni, veniva reso noto il successivo 8 settembre. Ne derivarono lo sbandamento e la disarticolazione delle nostre forze armate. In quel contesto iniziò dal Sud Italia, in modo occasionale e disorganico, la lotta contro gli ex-alleati tedeschi che intanto avevano occupato il Paese e intendevano vendicarsi del presunto “tradimento italiano”.

Il 9 settembre gli alleati sbarcarono nel Golfo di Salerno. A Napoli i tedeschi, soverchianti rispetto alle residue forze italiane, attivarono feroci rastrellamenti e rappresaglie. La reazione dei Napoletani, stremati da anni di bombardamenti, distruzioni e privazioni di guerra, giunse inaspettata. Già tra il 9 e il 10 settembre vi furono una serie di scontri in centro città tra gli occupanti e i civili e i militari italiani – tra i quali si distinsero i carabinieri – con il tentativo di assalto tedesco alla Prefettura, alla caserma Pastrengo, alla Zanzur ed al “palazzo dei telefoni” di via De Pretis. Dopo le prime schermaglie le forze tedesche, inizialmente contenute dai resistenti, si manifestarono soverchianti nelle loro spietate e geometriche rappresaglie. L’episodio culminante nell’emotività popolare si verificò il 12 settembre, con la plateale fucilazione da parte dei nazisti del marinaio “ignoto” sullo scalone d’ingresso dell’Università. L’agghiacciante esecuzione avvenne di fronte ad una folla sgomenta a cui, secondo la testimoniata ricostruzione, fu ordinato di inginocchiarsi ed applaudire e il cadavere della povera vittima, per estrema umiliazione, venne ignominiosamente gettato nel fuoco appiccato dagli stessi tedeschi all’Università. Il 13 settembre furono barbaramente giustiziati a Teverola quattordici carabinieri della stazione “Napoli Porto” (A. Rispoli: “Il riflesso degli eroi”), colpevoli agli occhi dei nazisti di aver vittoriosamente resistito qualche giorno prima ai loro attacchi alle caserme italiane ed allo strategico palazzo dei telefoni.

Iniziò così a montare la ribellione popolare – poi concentratasi nella intensa sequenza delle Quattro giornate – con combattimenti sempre più serrati e violenti, strada per strada, che costrinse i tedeschi alla fuga accelerandone precipitosamente il piano di ritirata, forse già in atto. Proprio la fucilazione del marinaio davanti all’Università, con il suo atroce contorno, in uno ai fucilati di piazza Bovio, marinai e finanzieri italiani lasciati per giorni come macabra esibizione intorno alla fontana davanti al palazzo della Borsa, scosse il sentimento popolare dei napoletani facendo lievitare un diffuso e rabbioso impeto di reazione.

Il potere nazista, nella pur lenta inesorabilità del nuovo corso, urlava la sua frustrazione sprigionando una tanto feroce quanto sterile forza brutale. I reiterati proclami del comando militare e delle autorità fasciste non bastavano più a regimentare una città ormai in ebollizione. I nazisti volevano suscitare il terrore nella popolazione infliggendo punizioni esemplari che fiaccassero ogni volontà di resistenza, ma ebbero l’opposto effetto di alimentare l’ondata di odio che saliva ormai irrefrenabile dal cuore popolare della città, pur senza coordinamento politico ed organizzativo. Il 12 e il 13 settembre venivano pubblicati i perentori proclami del comandante tedesco della piazza militare di Napoli, il famigerato colonnello Walter Scholl che morì nel 1956 in Germania senza essere mai stato condannato per crimini di guerra, che decretò il coprifuoco, lo stato d’assedio, le misure intimidatorie, repressive e precettive degli uomini idonei al lavoro da deportare. Ma era troppo tardi anche per la durezza metallica di Scholl. La rabbia e l’esasperazione per le esecuzioni crudeli ed indiscriminate e per la violenza delle retate montavano spontanee e diffuse per tutta la città, pur prive di adeguata organizzazione e regia militare, e la popolazione iniziò ad approvvigionarsi di armi nei modi più disparati e fortunosi.

Ancora il 23 settembre il colonnello Scholl ordinò lo sgombero di tutta la fascia costiera cittadina e precettò tutti gli uomini validi per il lavoro forzato, propedeutico alla deportazione in Germania. Si presentino a disposizione delle truppe occupanti tutti gli uomini in età di lavoro; i cittadini consegnino le armi e si mantenga l’ordine; si evacui in profondità la fascia litoranea. Ma alla chiamata obbligatoria del comandante tedesco risposero in meno di 150 napoletani – poi concentrati nello stadio Collana e liberati dalla popolazione in rivolta – rispetto ai circa 30.000 attesi e la coscrizione risultò determinante nel fare scattare la ribellione popolare. Il colonnello Scholl si rese subito conto di essersi illuso, pur non dovendo fronteggiare un comando partigiano o una resistenza organizzata. La massa degli “eroici” renitenti si rifugiò sulle colline, allora inedificate, dei Camaldoli e del Vomero o nel grembo di Napoli, nel labirintico sottosuolo dalle mille cavità.

E così avvenne anche per gli altri ordini. Consegnate tutte le armi, aveva proclamato il comandante tedesco, e i napoletani portarono solo anticaglie e qualche antico cimelio. Consegnate le radio, aveva ordinato il tedesco, e i napoletani si erano sintonizzati sulle emittenti estere in attesa dei bollettini della speranza. Per spietata reazione i tedeschi avevano rastrellato e trucidato, ma le notizie delle esecuzioni si propagarono per passaparola in tutta la città. Risalendo i vicoli, entrando nelle case sbarrate, suscitando irrefrenabile indignazione e la decisione spontanea di molti – individuale e collettiva – di non cedere.

L’insurrezione improvvisata e precariamente armata scintillò propagandosi lungo l’asse di via Toledo da piazza Carità a Dante, al Museo, a Salvator Rosa sino a Capodimonte e, dall’altro lato, per via Foria, lungo i quartieri popolari del Duomo, di porta San Gennaro e dell’Orto botanico sino alla Doganella e a Capodichino. Molti furono i teatri di scontro, dalla località Pagliarone del Vomero a Castel Sant’Elmo, dalla Villa Floridiana allo stadio Collana, dal Bosco di Capodimonte alla Sanità, da Via Carbonara al quartiere Mater Dei, da porta Capuana al Maschio Angioino, dal Vasto a Monteoliveto e piazza Carlo III. E così, dal 27 settembre e con crescente intensità, si alimentarono numerosissimi agguati, catture, sbarramenti, sparatorie, con una trama disorganica fatta di tanti episodi spiccioli e fatti sporadici convergenti verso un unico obiettivo. Di certo non riconducibili ad un piano studiato di guerriglia urbana, che in quel momento non poteva esistere, ma piuttosto al moto di ribellione di una città sfinita ma indomita.

La partecipazione fu larga. Operai dei rioni popolari, artigiani, commercianti, impiegati, professionisti, ex-militari, donne e ragazzi, uniti nelle più svariate azioni di sabotaggio e disturbo: barricate agli incroci e nei passaggi obbligati della viabilità cittadina per intralciare i movimenti delle truppe tedesche; terrazzi delle case che diventavano improvvisate postazioni di avvistamento e ricognizione; staffette e portaordini ovunque; “scugnizzi” in prima fila caricandosi ogni rischio; caserme abbandonate e saccheggiate; tram rovesciati in fortunosi sbarramenti. Molte carrette a mano trasportavano purtroppo i tanti morti e feriti. L’operazione forse più clamorosa e riuscita dell’insurrezione fu la liberazione degli ostaggi concentrati dai tedeschi nello stadio littorio del Vomero, oggi Collana.

Quei giorni gloriosi sono magnificamente rappresentati nelle avvincenti sequenze del film capolavoro di Nanni Loy (1962) – ricostruiti dalle testimonianze dei partecipanti e dalla scrittura degli storici – che ci restituiscono, nei lampi di scene che personalmente non vedemmo ma si accavallano nel nostro disordinato immaginario, l’ambientazione, la temperie, la fiammeggiante passione di quelle poche ma infinite giornate di lotta. Finalmente, sotto la fervente ed incalzante reazione dei tanti quartieri di Napoli – in cui iniziavano ad affermarsi anche figure e riferimenti militari e politici più strutturati – la sicurezza dei tedeschi iniziava a vacillare e non bastavano più i carri armati del feldmaresciallo Kesserling a riportare l’ordine nelle strade.

Molti furono i generosi sacrifici di combattenti di ogni età e sesso, tanti rimasti anonimi ed alcuni giustamente decorati, celebrati nel ricordo ed anche riconoscibili nelle targhe e nell’attuale toponomastica cittadina. Basti pensare a piazza delle Quattro Giornate al Vomero, alla scuola di Poggioreale così intitolata, alla galleria di Piedigrotta analogamente, alle numerose lapidi commemorative, al monumento “allo scugnizzo” in piazza della Repubblica, simbolo dell’insurrezione.

Tra i mille fronti di quelle convulse giornate di fuoco incrociato, spicca il commovente sacrificio del povero Gennaro Capuozzo, lo scugnizzo dodicenne “Gennarino” che andò a morte – secondo la ricostruzione storica e cinematografica – nell’ingenuo tentativo di opporsi all’inesorabile avanzata di un carro armato agitando una bomba a mano che forse non sapeva usare. Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Alla fine, Napoli rimase ai napoletani. La minaccia di Hitler di ridurla a “cenere e fango” non si avverò. Il comandante tedesco fu costretto a patteggiare – per la prima volta nella lunga ritirata dalla Penisola – e a sloggiare umiliato, con le sue truppe marcate e sbeffeggiate dai partigiani. Cadevano anche le ultime resistenze dei fascisti, asserragliati su una delle torri aragonesi di Porta Capuana, con cui vi erano stati pochi scontri diretti. Il bilancio finale risultò pesante, anche se resterà per sempre dai contorni imprecisi, con alcune centinaia di morti e feriti napoletani sul campo ed è il tributo di sangue che la città pagò volontariamente per guadagnare con orgoglio la propria libertà.

Non è stato agevole per storici e studiosi ricostruire in modo organico i fatti delle “Quattro giornate”, ricomponendo in una lettura unitaria tanti dettagli di narrazioni frammentarie di eventi dispersi, spesso dai contorni confusi, sprigionati dalla iniziativa spontanea in assenza di un chiaro filo conduttore. In alcune interpretazioni si indulge talvolta ad una narrazione superficiale ed oleografica di quelle serrate giornate, venata dal gusto del pittoresco e del bozzettistico – in qualche modo connaturato alla stereotipata rappresentazione della napoletanità e dell’ingegno napoletano – e cioè la guerra degli “scugnizzi”, che rappresenta una sorta di filone consolidato ed obbligato in letteratura per spiegare coloritamente Napoli ed i napoletani a chi napoletano non è.

Occorre però qualche sintetica riflessione sul più solido retroterra storico e sulle radici politiche del “moto” antinazista. A Napoli, durante il ventennio, si era espresso il filo di una resistenza “non operativa” ma ideale e culturale, sottilmente alimentata da gruppi intellettuali e soprattutto dalla scuola liberale di Benedetto Croce e Adolfo Omodeo che per anni, nell’appiattimento della protervia fascista, si era mantenuta viva nel mondo della cultura militante. Nel popolo partenopeo, invece, le ataviche condizioni di miseria e di arretratezza, che il fascismo non era stato capace di attenuare e rimuovere sotto la vuota goffaggine della retorica parolaia e delle imprese di facciata, dopo una prima fase di consenso avevano progressivamente radicato una profonda disillusione e diffusa ironia.

Poi il martirio subito dalla città in guerra. I bombardamenti massicci e a ripetizione, le enormi e diffuse devastazioni, l’angoscia continua degli allarmi aerei, l’assenza di materie prime ed il flagello del mercato nero, le perdite sistematiche ed inesorabili con uno stillicidio di vite e di beni, avevano fatto maturare in tutti i ceti sociali la consapevolezza della tragedia vissuta e della sua insostenibilità. Infine, come la goccia che fa traboccare il vaso già troppo pieno, le retate, l’arrogante tracotanza, le spietate rappresaglie, le crudeli esecuzioni dei tedeschi avevano esaurito ogni possibilità di ulteriore sopportazione. Allora Napoli trovò in sé stessa l’energia per riscattarsi, si direbbe in linguaggio gergale per “togliersi gli schiaffi dalla faccia”. E si verificò in qualche modo anche la saldatura – che pure non si ritrova puntualizzata in fatti organizzativi e palpabili – tra intellettuali e popolo, tra ragioni ideali e moti istintivi, tra desiderio di libertà e sentimento di massa.

È forse questo il vero punto focale, o quanto meno una buona chiave di lettura, per interpretare il nodo politico delle “Quattro giornate”. Il segno vero con cui i napoletani hanno inteso consegnarle alla storia. I giorni di fine settembre ’43 costituirono in Italia il primo atto corale di resistenza armata agli occupanti e ciò vale non solo per rivendicare una primazia temporale – che non avrebbe da sola molto senso – ma piuttosto per la storia di una comunità finalmente fusa, solidale e compatta nel suo naturale e per certi versi insperato ritrovarsi in una sostanziale coesione di intenti. La Napoli intellettuale degli studi severi e dello schivo ed elitario magistero di Benedetto Croce si fondeva per certi versi con quella intuitiva e generosa dei vicoli e dei bassi: la libertà come consapevolezza di diritto è rappresentata dal sangue versato in quelle valorose giornate. Lasciamo pure che resti nell’immaginario storico il mito dello scugnizzo ribelle, ma aggiungiamo però che l’epopea dei “guaglioni” napoletani è stata scritta da un intero popolo che aveva covato un sentimento consapevole di opposizione e, al tempo stesso, di speranza in un futuro migliore e più libero.