Prima di tutto chiarisco subito al lettore che il Pilièro, cioè il palo di addestramento di un cavallo, non… ci azzecca proprio con il Brigantaggio. E però il mese di Agosto, con le sue pause estive o, ancor più, festive è il complice del lettore fidelizzato che ha il modo – e il tempo – tutto feriale di scrivermi le proprie osservazioni, valutazioni e, anche, richieste su articoli già da me pubblicati. O, addirittura… richiesta di articoli da pubblicare, per rendere un servizio di completezza alla informazione di questo giornale Gente e Territorio, che ospita i miei articoli da circa un quinquennio, ormai.
E così, in questo tempo agostano, da lettori fedeli e amici che mi leggono fedelmente, mi sono pervenute – oltre le ricorrenti, gradite e gratificanti valutazioni positive – anche alcune osservazioni e richieste particolari.
Tra esse una riguardava il Pilièro, anzi la espressione tutta napoletana, dedicata agli spilungoni alti e magri “Me pare ‘o sicco pilièro”. Tale espressione – ormai in disuso – ancora sopravvive evidentemente nei ricordi dei lettori che hanno superato gli “…anta”.
Il Pilièro – lo ripetiamo ad abundantiam – era il palo di legno intorno al quale, preventivamente legati con una corda molto lenta al morso, si addestravano i cavalli dell’Alta Scuola Equestre napoletana. Certo che si: NAPOLETANA. Anzi, per essere più chiaro e preciso, aggiungo che l’alta Scuola Equestre nacque a Napoli. Essa, infatti, fu codificata nel Rinascimento da un apposito Manuale – fatto stampare nell’anno 1550 dal nobiluomo napoletano/ravellese Federico Grisone, dal titolo inequivocabile: “Gli ordini di cavalcare”, che fu tradotto in molte lingue europee e che è stato la Bibbia indiscussa del dressage. E’ soltanto uno dei tanti primati di Napoli, ignorato dai più.
Ma torniamo al Piliero. Ebbene, un amico lettore mi ha segnalato che egli conosceva l’espressione. Ma nella versione a lui nota e familiare, il termine “Pilièro” era sostituito da “Piliènto”. Immediata è stata la mia ricerca. E la verifica mi ha dato “peliènto”, anzi “sicco peliènto”. Con il termine peliènto, a significare: macilento e anche magro repellente.
Ne prendo atto, ma osservo anche il fatto che il “pilièro” era, anzi è, un palo spoglio – alto e sottile – che solo in sommità aveva una “testa” tornita o anche appena decorata.
Esaurita la ricerca agostana, passo a dare risposta a un’altra richiesta ricevuta, circa il Brigantaggio Meridionale. Il fenomeno del Brigantaggio è stato da me appena rievocato nell’articolo dedicato all’anniversario dell’eccidio savoiardo portato a termine il 14 di Agosto del 1861 nel Beneventano, a Pontelandolfo e Casalduni, ma non solo, dai Bersaglieri dell’Esercito sabaudo. In quel caso i Bersaglieri furono guidati dal Colonnello Negri, che citiamo solo per cognome, in quanto il suo personaggio è scomparso nei gorghi più oscuri della Storia del Risorgimento. Ma Negri fu ispirato dal Comandante supremo Generale Cialdini, conclamato criminale di guerra, in un’Italia appena riunificata sotto la bandiera tricolore. Un vessillo ancora grondante di rosso del sangue intanto versato soprattutto dai meridionali, in particolare dai lealisti, cioè dai sostenitori del Re Francesco II di Borbone, spodestato ed esiliato, ma amato dai Napoletani che lo chiamavano affettuosamente Franceschiello, non certo per sminuirne la figura, come certi Storici di parte ci hanno tramandato.
Tra i lealisti, costretti al silenzio o alla macchia da leggi liberticide e spietate, come la Legge Pica, ci furono i Briganti, che diedero vita al fenomeno del Brigantaggio postunitario, per domare il quale il neoistituito Regno d’Italia fece scendere in campo nel Sud del Paese oltre centoventimila uomini in armi, per un totale di circa centocinquantamila militari variamente coinvolti nella repressione del Grande Brigantaggio meridionale. Una vera e propria occupazione militare che desertificò le campagne e creò i presupposti per le emigrazioni di massa dei Meridionali, che raggiunsero la cifra di otto milioni di persone, in pochi decenni.
E l’aggettivo “Grande” davanti al termine Brigantaggio l’ho inserito per sgombrare subito il campo da interpretazioni “deviate” sul fenomeno del Brigantaggio ut sic, peraltro già presente nelle regioni italiane centro-meridionali, non soltanto in quelle meridionali, governate dai Borbone. Il Brigantaggio delle “insorgenze” infatti – sia prima che dopo il turbolento periodo del Triennio Giacobino e del decennio Francese, dal 1790 circa al 1815 – fu caratterizzato, tra le tante, anche da motivazioni religiose tra gli insorti.
Se si va su Wikipedia – che non è certo una fonte autorevole, ma nemmeno prezzolata, per la sua stessa natura di “Enciclopedia Libera” – come si autodefinisce – si legge così: ”All’inizio del Milleottocento furono assoldati briganti e ogni genere di criminali dalle armate sanfediste del Cardinale Ruffo per abbattere la Repubblica Napoletana (1799); in seguito, il brigantaggio fu duramente represso durante la reggenza napoleonica e murattiana del Regno di Napoli, così come in linea di massima condannarono l’attività brigantesca le leggi borboniche, restando però le stesse leggi inapplicate e i briganti, grazie ai loro protettori e manutengoli e alla interessata cecità delle autorità, che anzi si servivano dei criminali come soldataglia e strumento di controllo del territorio (alleanza col potere risalente almeno al regno di Ferdinando I), continuarono ad affliggere e taglieggiare la già misera popolazione.” Insomma, sia pure a fatica – a causa dell’arruffato e pastoso periodare – si capisce chiaramente che il fenomeno del Brigantaggio ebbe varie origini e cause, fino all’Unità d’Italia, imposta con le armi e “legittimata” a colpi di falsi plebisciti.
Ribadisco, oltretutto, che il brigantaggio dei grassatori di viandanti e granturisti, non era presente soltanto al di qua dei confini del Regno delle Due Sicilie, ma interessava anche il Lazio, l’Abruzzo, le Marche, l’Emilia, la Romagna e la bassa Toscana, con bande improvvisate e disperse, composte di contadini, soldati mercenari, disertori e, non raramente, anche da preti, spretati e non. Plebaglia insomma, espulsa dal vivere civile urbano e trasferitasi lungo le rotte interne del commercio e del nascente turismo fai da te. Non a caso, la letteratura odeporica del Grand Tour d’Italie è ricca di episodi di Brigantaggio di ogni tipo.
Nell’Italia postunitaria invece il Brigantaggio meridionale diventa quello che gli storici attenti e non faziosi preferiscono ormai definire il Grande Brigantaggio.
Meridionalista e lealista nella maggior parte dei casi, insomma legato al sostegno della causa Borbonica e della Chiesa Romana, ma soprattutto dei diritti dei vinti, i cittadini meridionali del Regno delle due Sicilie
Sono escluse – ovviamente – le dovute eccezioni dei casi di brigantaggio delinquenziale e crudele, al quale, in questo articolo, non attribuisco nemmeno la “B” maiuscola, per indegnità.
Ma, prima di chiudere, voglio ricordare al lettore che lo stesso Garibaldi, strumento principale della conquista del Regno delle Due Sicilie, allo spirare del Grande Brigantaggio filoborbonico, nell’anno 1868, in una propria lettera diretta ad Adelaide Cairoli, madre dei Fratelli Cairoli, eroi dell’Olimpo risorgimentale, ebbe a scrivere: “(…) Ho la coscienza di non aver fatto male; ciò nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore…”
E mezzo secolo dopo, nel 1820, Antonio Gramsci, egli stesso nell’Olimpo dei grandi pensatori italiani, scrisse con parole inequivocabili così: “Lo Stato italiano (…) è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di Briganti”.
Penso che a questo punto non sia opportuno aggiungere altro.