Edito da: WWW.PONTELANDOLFONEWS:COM
Il Regno di Napoli era conquistato ormai. L’ultimo Re Borbone delle Due Sicilie Francesco II insieme con la Regina Maria Sofia e con i fedelissimi superstiti, si era arroccato in difesa nella cittadella di Gaeta, mostrando un’inaspettata fermezza e volontà di resistere, riscattandosi così dalle accuse di debolezza che circolavano sul suo conto. Il Re Francesco II optò per la resistenza a oltranza di Gaeta, che sembrava pressoché inespugnabile, in attesa di sviluppi scaturenti dai precari equilibri europei. Il sovrano volle forse anche sottrarre Napoli alla distruzione bellica e da quella fratricida che poteva derivare dalla caduta del Regno.
E così, tra il 5 novembre del 1860 e il 13 Febbraio del 1861 si chiuse drammaticamente il sipario sulla grande storia dei Borbone a Napoli e nel Meridione d’Italia. La caduta di Gaeta, fu seguito circa un mese dopo dalla caduta della Fortezza di Civitella del Tronto e da quella di Messina, quasi contemporaneamente. Infatti dopo pochi giorni, esattamente il 17 di Marzo del 1861 Vittorio Emanuele II, fu proclamato Re d’Italia a Torino, dopo avere vinto una guerra mai dichiarata, ma portata avanti con feroce determinazione fino alla proclamazione del Regno d’Italia, con l’assenso tacito ma esplicito delle superpotenze europee del momento: la Francia e l’Inghilterra, le quali avevano garantito assistenza e risorse all’esercito sabaudo e, ancora prima a Giuseppe Garibaldi.
In più, fin dalla capitolazione di Civitella del Tronto – avvenuta dopo tre giorni intensi di combattimenti che coinvolsero anche i civili e si svolsero dopo la proclamazione del primo Re d’Italia savoiardo – il comando generale piemontese si rese protagonista di odiose iniziative. Prima fra tutte fu la fucilazione senza processo dell’assistente del generale napoletano Giova Battista Della Rocca, latore della Dichiarazione di resa a nome del re Francesco II di Borbone. Negli stessi giorni a Messina, il Generale Cialdini non concesse l’onore delle armi ai vinti, che avevano fatto solo il loro dovere. In più, Cialdini, da vero criminale di guerra, respinse sdegnosamente la spada dell’anziano generale napoletano Gennaro Fergola, insultandolo perché reo a suo giudizio di avere opposto testarda resistenza prima della resa accompagnata da un proclama diretto ai soldati, che si chiudeva così: “(…)Addio miei bravi camerati! Addio! La sventura ci divide, fede e lealtà fu la nostra divisa, e questa non si spogli giammai da noi, ciascuno di voi porti scolpita in cuore la nobile parola, che l’univa con nodo indissolubile al nostro sventurato, ma eroico sovrano”.
A questi avvenimenti però si aggiunse la eclatante decisione della distruzione fisica della Fortezza civitelliana e della sua cinta muraria difensiva, eseguita per ordine diretto del Ministro savoiardo della Guerra Manfredo Fanti, il quale volle che l’operazione servisse come monito per i militari e i civili regnicoli, che ancora si dichiaravano legati alla causa borbonica. E infatti il 1861 fu l’anno che vide la nascita del brigantaggio post-unitario. Non ci soffermiamo ulteriormente sul fenomeno del Brigantaggio, perché ormai sono quasi totalitari i giudizi sul fenomeno, che durò circa un decennio – dal 1861 fino al 1870 – e che vide il Meridione lacerato e stroncato socialmente ed economicamente da leggi liberticide. Da quegli anni scaturì la Questione Meridionale, mai chiusasi, la quale è però almeno servita – sia pure tardivamente – ad alimentare le tesi revisionistiche del Risorgimento italiano, ormai condivise e diffuse non soltanto tra i meridionalisti.
Nel contesto storico del Brigantaggio post-unitario si verificò nel Beneventano il turpe episodio dell’eccidio di Pontelandolfo, il più efferato e atroce, ma non l’unico caso di violenza di massa esercitata nel Meridione d’Italia dalla Stato italiano post-unitario.
L’eccidio di Pontelandolfo fu portato a termine da una colonna di circa 400 bersaglieri proprio il 14 agosto del 1861. Il fatto rappresenta una delle pagine più brutte, anche se ancora controverse, del periodo storico che va sotto il nome di Risorgimento.
L’11 agosto 1861, una quarantina di soldati dell’Esercito Italiano – per la cronaca quarantuno, appena qualche mese prima invasori – furono uccisi dai briganti della banda Giordano, cui avevano dato man forte cittadini di Casalduni, Pontelandolfo e Cerreto.
In quella zona erano in corso azioni di bande di ex soldati borbonici, aiutati dalla popolazione e da esponenti del clero. I militari italiani invece erano stati allertati e incaricati per la repressione. Dopo la uccisione dei quarantuno militari fu comandata un’azione di rappresaglia a Pontelandolfo e Casalduni. Una rappresaglia sui civili non è normalmente un’azione militare. Responsabile, ancora una volta, fu il generale Cialdini, il quale aveva dato ordine che di Pontelandolfo non “doveva rimanere più pietra su pietra.” La colonna di bersaglieri, per rappresaglia, come da ordine di Cialdini, distrusse Pontelandolfo e in buona parte Casalduni, con ferocia inammissibile, comunque tale da indurre il deputato Giuseppe Ferrari – milanese e non certo meridionale – a riferire al neo Parlamento italiano l’accaduto, nel dicembre del 1861.
Un episodio da vera e propria guerra civile.