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L’INCHIESTA. Brucellosi bufalina in Campania 3: regole e test

by Pietro Spirito
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La brucellosi bufalina in Campania non è solo una storia di malasanità, ma di riorganizzazione del capitalismo agricolo.

 

3. Una storia tra regole europee e prassi regionali. Gli esiti incerti dei test sanitari.

Questa storia comincia proprio in provincia di Caserta, dove si produce la mozzarella di bufala Dop e dove negli ultimi 12 anni sono state abbattute 140 mila bufale: 300 aziende zootecniche su 1050 sono state chiuse e cinquemila persone sono rimaste senza lavoro. Assieme alla provincia di Salerno parliamo del 75% del mercato bufalino nazionale.

La cessazione di un terzo delle aziende e la perdita di un volume di occupazione paragonabile a quello di una grandissima impresa sono fatti di enorme portata, che dovrebbero indurre ad una discussione pubblica serrata ed attenta. Invece no, tutto passa in cavalleria.

I numeri, forniti dall’Asl di Caserta su richiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere, sono quelli di una strage, autorizzata dalla legge, che presenta moltissimi lati oscuri. Dai riscontri diagnostici post-mortem si è scoperto infatti che soltanto l’1,4 per cento degli animali abbattuti aveva davvero contratto l’infezione. La maggior parte della mandria sacrificata era invece perfettamente sana. L’abisso tra uccisioni e malattie certificate è davvero abissale, apre interrogativi che sinora sono rimasti senza risposta.

Come è stato possibile tutto ciò? In materia di politica ambientale, il trattato sull’Unione Europea sancisce due princìpi fondamentali: quello della precauzione (appunto) e quello dell’azione preventiva. Il secondo comma dell’articolo 191 dice che “in tale contesto, le misure di armonizzazione rispondenti a esigenze di protezione dell’ambiente comportano, nei casi opportuni, una clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri a prendere, per motivi ambientali di natura non economica, misure provvisorie soggette a una procedura di controllo dell’Unione”.

Ciò significa che Bruxelles detta i princìpi generali, i Governi nazionali li recepiscono nelle loro leggi e, nel caso dell’Italia, le Regioni hanno il diritto di scegliere le strategie concrete per metterli in pratica. L’8 marzo 2022 la Regione Campania ha adottato la delibera numero 104 con cui ha approvato un suo programma obbligatorio di eradicazione delle malattie infettive delle specie bovina e bufalina che, fino allo scorso agosto, ha portato al macello 13mila capi, quasi il doppio degli 8.187 del 2020 (di cui solo 30 risultati positivi) e molti di più degli 11.722 finiti al macello nel 2019 (39 infetti).

Da tempo gli allevatori campani, riuniti in un Coordinamento Unitario in Difesa del Patrimonio Bufalino, che associa diverse decine di organizzazioni sociali casertane, stanno conducendo una dura battaglia contro queste mattanze. Hanno presentato denunce alla Procura di Santa Maria Capua Vetere per ottenere dati scientifici sui capi abbattuti (anche in passato) e interrogazioni al Parlamento italiano e a quello europeo. Hanno presentato ricorsi al Tribunale amministrativo prima e al Consiglio di Stato dopo contro i provvedimenti regionali.

E, da ultimo, affiancati da Altragricoltura-Confederazione per la Sovranità Alimentare, hanno depositato una petizione alla Commissione europea in cui chiedono all’Europa “una forte iniziativa in difesa dell’allevamento della Bufala Mediterranea, della filiera di trasformazione, del patrimonio culturale e civile di cui sono espressione insieme ai diritti dei cittadini, alla sicurezza alimentare e alla tutela dell’ambiente e del benessere degli animali” e l’applicazione dell’articolo 9 del regolamento europeo 689/2020 che, a loro parere, la delibera regionale campana starebbe violando. Ma forse è proprio in questa norma che si annida il “sospetto”, perché quando una legge è invocata da entrambe le parti in causa difficilmente può diventare lo strumento per risolvere il conflitto.

Il regolamento europeo 689/2020 nasce per accorpare in un unico atto normativo tutte le disposizioni in materia di sanità animale sparse in varie leggi: dalla sorveglianza ai programmi di eradicazione fino allo status di zona indenne da malattie “elencate ed emergenti”. Tra queste malattie, rientrano ovviamente anche la brucellosi e la tubercolosi di bovini, ovini, suini e caprini.

Nel preambolo numero 37, il regolamento stabilisce che gli animali riconosciuti come “casi confermati” devono essere allontanati dagli allevamenti e lascia che sia l’autorità competente (le Asl in Italia) a decidere se le loro carni possano essere introdotte nella filiera alimentare o meno. Nel primo caso, l’animale-caso confermato verrà macellato, nel secondo si procederà all’abbattimento.

Ma quando un “caso confermato” è davvero considerato tale? Qui entra in gioco l’articolo 9 del dettato europeo ed è qui che si insidia il primo sospetto. Un animale è considerato “caso confermato” quando, da una campione prelevato, viene isolato l’agente patogeno che rivela l’infezione oppure viene individuato un antigene o un acido nucleico specifico dell’agente patogeno o ancora quando un metodo diagnostico indiretto fornisce un risultato positivo.

Negli ultimi due casi è necessario, però, che l’animale presenti “segni clinici compatibili con la malattia” o una “connessione epidemiologica” con un caso sospetto, cioè abbia avuto un contatto indiretto con un allevamento infetto che si trovi anche a 20 chilometri di distanza.

Viene da sé dunque che ci si trova di fronte a un “caso sospetto” quando, in presenza di un animale con sintomi della malattia, gli esami clinici post-mortem o di laboratorio (in quest’ultimo caso su un animale vivo) “sono indicativi” (quindi non certificano) la presenza della malattia, oppure quando i risultati ottenuti da un metodo diagnostico “indicano la probabile presenza della malattia” o, infine, quando è stata stabilita una connessione epidemiologica con un caso confermato.

La differenza, insomma, tra un caso confermato e un caso sospetto sta nella tipologia degli esami diagnostici effettuati e nella presenza o meno dei sintomi esterni che facciano temere l’insorgenza dell’infezione. La norma europea elenca anche i vari tipi di prove sierologiche da effettuare su campioni di sangue o di latte per diagnosticare l’infezione.

Tra questi ci sono la siero agglutinazione rapida (SAR) e la fissazione del complemento (FDC), attualmente usate in Italia e considerate originariamente dall’Istituto Superiore di Sanità valide per contrastare la diffusione della malattia. Ma entrambe non sono esenti da margini di errore e l’eventualità che possano emergere casi di falsi positivi o falsi negativi non è da escludere.

Come si legge nell’ultimo report dell’Istituto Superiore di Sanità di maggio 2021, “le reazioni sierodiagnostiche aspecifiche possono essere falsamente positive o falsamente negative”. I falsi negativi devono essere sottoposti a ulteriori accertamenti diagnostici, mentre negli allevamenti con falsi positivi si dovrebbero condurre studi epidemiologici mirati e utilizzare “altri metodi diagnostici complementari o di nuova concezione” oppure combinare tra loro questi metodi.

Il regolamento europeo, però, nulla dice su come comportarsi nel caso in cui i risultati delle prove diagnostiche diano esiti dubbi perché, semmai, in contrasto tra di loro. Ed è in questo vuoto normativo che si inserisce il potere discrezionale dello Stato centrale prima e delle Regioni dopo.

La legge cardine dello Stato Italiano in materia è l’ordinanza del 28 maggio 2015 del Ministero della Salute, integrata e modificata da quella del 14 giugno 2022. Nel mezzo si colloca la delibera della Regione Campania numero 104 dell’8 marzo 2022 con cui viene approvato il nuovo Piano di eradicazione.

 

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