Ieri 22 maggio, a Villa Fernandes di Portici si è svolto l’incontro con Monica Acito, autrice del romanzo Uvaspina, nell’ambito della rassegna Lib(e)ri al parco. Ileana Bonadies dell’Associazione Blab, cuore pulsante dell’iniziativa letteraria e lo scrittore Gianni Solla hanno presentato la giovane autrice e ne hanno svelato le caratteristiche letterarie attraverso un dialogo/dibattito di particolare interesse.
Ma chi è Monica Acito? Ha vinto al Salone del libro di Torino il premio Giovane Promessa della letteratura Nazionale, riservato ad autrici ed autori di età non superiore ai trent’anni. La sua giovane carriera si sviluppa in profonda relazione con il territorio cui appartiene. Cresciuta in Cilento tra le gole del Calore e Paestum, si è trasferita a 18 anni nel centro storico di Napoli, tra Forcella e Mezzocannone. A Torino ha frequentato la Scuola Holden, nel 2021 ha vinto il Premio Calvino per la narrativa breve. Forte quindi il legame con Napoli e la Campania, ben presente in Uvaspina.
L’approfondimento sul testo ha avuto avvio da una riflessione della Bonadies a partire da una parola chiave: spaesamento, presente nella Nota finale del testo. Per la Acito questa condizione è psicologica ed ambientale nel senso che è stata determinata dal cambiamento epocale del passaggio a Napoli, città sulfurea, capace di creare sensazioni ambigue e destabilizzanti. Una sorta di smarginatura per dirla alla Elena Ferrante. Del resto le due scrittrici napoletane hanno una comune nobile ascendenza, l’Anna Maria Ortese di Il mare non bagna Napoli.
Gianni Solla nel riflettere sui modelli con cui inevitabilmente chi scrive deve fare i conti ha citato anche Ramondino, Montesano e soprattutto Basile per quell’atmosfera di magia che pervade il Pentamerone e che anche in Uvaspina è presente: un realismo magico che vive in un tempo/non tempo soprattutto perché ambientato nella nostra città che è una trappola temporale (Solla).
Il titolo del libro nasce da un episodio della vita dell’autrice. Sofferente di una strana tosse all’incirca a nove anni, i genitori la portano da una guaritrice che le prescrive il succo di uvaspina, un ribes che spremuto ha proprietà antinfiammatorie.
Questo ricordo infantile, sedimentato nella memoria e cresciuto lentamente ma inesorabilmente nel contatto con gli altri e nelle esperienze di vita, per traslato è diventato sinonimo di chi in una famiglia vive per gli altri, è spremuto dagli altri ed agli altri offre il suo succo. Carmine Riccio, uvaspina, vive con una famiglia scarrupata, carnevalesca, in cui convivono quattro solitudini. Figure di particolare rilievo sono la madre, spaiata, che faceva la chiagnazzara, la sorella Minuccia che spreme il fratello con violenza e testardaggine, personaggio demoniaco che riesce a tenere in scacco il resto dei familiari. Uvaspina, femminiello, si salverà? Avrà bisogno di altri incontri, determinanti come quello con il pescatore Antonio.
Dal dibattito è emerso poi un altro aspetto dell’autrice: il sentire il suo libro, ora che percorre le vie del successo editoriale e quindi della notorietà, come qualcosa altro da sé. Come dice Solla, nelle presentazioni e nelle discussioni sul testo si crea una sorta di sovralibro che non corrisponde più all’oggetto libro che si legge. In questo interregno tra la fine della scrittura e l’approccio ad un nuovo prodotto l’autrice vive drammaticamente la mancanza di tempo da dedicare all’elaborazione ed alla stesura di nuove idee. Chiuso un capitolo e consegnato ai lettori il libro non è automatico l’inizio di una nuova cosa.
Piccolo aneddoto sull’incontro tra Ileana Bonadies dell’Associazione Blab e Monica Acito alla Fiera del libro di Napoli: non conoscendosi personalmente, il segnale di riconoscimento che ha consentito l’approccio alla Stazione Marittima sono state le scarpe rosa indossate dall’autrice e considerate portafortuna nelle occasioni ufficiali. Una sorta di scarpette rosse che, danzando, stanno portando Monica Acito verso nuovi incontri e nuovi riconoscimenti.
Monica Acito, Uvaspina, Bompiani, 2023