L’altro ieri al Teatro San Carlo è stata rappresentata la Messa di Requiem in Re minore K 626 di Wolfgang Amadeus Mozart, con la regia di Romeo Castellucci e la direzione dì orchestra di Raphael Pichon. La messa in scena è stata molto originale, al punto da far storcere il muso agli immancabili puristi. Eppure, lo sforzo di sobrietà che è stato messa in scena si è accompagnato con il ricorso a metafore universali che hanno rafforzato la potenza della musica immortale di Mozart.
Due caratteristiche hanno contraddistinto la rappresentazione dell’opera: un balletto che ha dato vita a tutti i momenti della Messa di Requiem, ed una sequenza di scritte con il racconto delle estinzioni nel corso dei millenni, sul fondo della scena senza commento che non fossero i nomi.
Le civiltà, i popoli, le architetture, le lingue, sostanzialmente l’umanità nelle sue differenti declinazioni hanno declinato le trasformazioni che si sono inseguite durante lo scorrere del tempo. E, nella scena finale, la comparsa di un neonato, proprio prima del calo del sipario, con il pianto della sua solitudine, restituisce allo spettatore la speranza di un nuovo inizio.
Con questo allestimento si è data ragione alla universalità senza tempo della musica di Mozart, ed alla bellezza stupefacente della musica che ha creato con il Requiem. Dietro questa composizione c’è una storia affascinante e misteriosa, che in qualche modo gioca di contrappunto con la scelta che è stata compiuta con l’allestimento effettuato dal regista.
La scrittura della Messa di Requiem in Re minore K 626 ebbe inizio nell’autunno del 1791, probabilmente verso la metà di settembre dopo il rientro di Wolfgang Amadeus Mozart da Praga dove aveva realizzato “La clemenza di Tito”. Il musicista iniziò verosimilmente a lavorare sull’opera commissionata dopo aver terminato “Il flauto magico”, rappresentato il 30 settembre con la sua direzione. Il 20 novembre le sue condizioni di salute peggiorarono e fu costretto a letto, limitando la sua attività pur rimanendo sempre vigile e cosciente fino a due ore prima del decesso il 5 dicembre.
La composizione del Requiem è ancora oggi legata a circostanze velate di mistero. L’opera è collegata alla controversa vicenda della morte del suo autore, avvenuta il giorno successivo alla stesura delle parti vocali del Domine Jesu e Hostias. Subito dopo la sua morte apparvero le prime leggende e numerosi aneddoti.
La versione più accreditata è quella del “messaggero sconosciuto” che commissiona al musicista una messa funebre. Il fatto sarebbe stato testimoniato da Constanze, la moglie di Mozart, a cui il compositore confidò l’occasione e il motivo dell’incarico. Si parlò anche di una lettera, scritta in lingua italiana, inviata da Mozart a Lorenzo da Ponte dove si diceva ossessionato dalla figura sconosciuta che gli aveva commissionato un “canto funebre”, lavoro che egli doveva assolutamente terminare; la lettera si rivelò poi un falso.
Il messaggero sconosciuto era, secondo la maggior parte degli storici, il conte Franz von Walsegg di Stuppach, musicista dilettante, proprietario di una cappella privata dove era solito eseguire composizioni non sue, ma che faceva arbitrariamente passare per proprie. Volendo commemorare la giovane moglie, contessa Anna Edlen von Flammberg, morta il 14 febbraio, decise di commissionare a Mozart, per la somma di cinquanta ducati, un Requiem che avrebbe poi spacciato per suo.
Anche Stendhal, in “Vite di Haydn, Mozart e Metastasio” (1815), parla di un anonimo committente che si presentò alla sua porta nel cuore della notte con una maschera, un mantello scuro, aria lugubre e una borsa contenente danari: questi incaricò Mozart, malato e caduto in miseria, di comporre in quattro settimane una messa di requiem, dietro compenso di cinquanta ducati. Secondo Stendhal, Mozart tentò di scoprire chi fosse il misterioso committente.
Quando le forze cominciarono a mancargli per il duro lavoro, e si rese conto di non riuscire ad identificare l’uomo, il compositore si convinse che il committente fosse un emissario dell’aldilà che lo avesse incaricato in realtà di scrivere la messa di requiem per se stesso.
Allo scadere delle quattro settimane, l’uomo si presentò per ritirare la composizione, che però Mozart non aveva ancora completato. Nonostante i sospetti del musicista, gli offrì altri cinquanta ducati e altre quattro settimane di tempo: inutili, poiché Mozart morirà lasciando l’opera incompiuta. Le ipotesi di Stendhal non si allontanano molto da quanto è poi stato riscontrato con ulteriori indagini che hanno portato a una ricostruzione degli avvenimenti.
Una celebre, ma totalmente infondata, leggenda vuole che sia stato il musicista italiano Antonio Salieri, invidioso del talento di Mozart, ad aggravare il deperimento del già malato collega avvelenandolo. La vedova, dopo la morte di Mozart, sostenne e avvalorò la diceria. Al di là della leggenda, il fatto che Salieri, compositore già allora celebre e riverito, potesse essere invidioso di un musicista squattrinato e male in arnese quale era Mozart era molto improbabile.
La rappresentazione curata per il Teatro San Carlo da Romeo Castellucci, con la direzione d’orchestra di Raphael Pichon, racconta, senza esplicitarlo, l’angoscia universale di fronte alla morte, una morte che non è più solo individuale, ma anche collettiva.
In una delle scritte che accompagnano verso la fine della narrazione, è indicata anche l’estinzione del San Carlo: come non pensare anche alle polemiche di questi giorni sul probabile cambio del sovraintendente e con la riaffermazione di un primato della politica che ferisce a morte l’arte?