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Lo storicismo esistenziale di Giuseppe Cacciatore

by Bruno Gravagnuolo
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Nella mattina di ieri, 2 marzo, è finito a Salerno, circondato dall’affetto di sua moglie Paola Volpe e dei figli Fortunato e Roberto, oltre che della cara Domenica, il prof. Giuseppe Cacciatore. Storico della filosofia emerito alla Federico II di Napoli. Accademico dei Lincei, già presidente della Società filosofica italiana. Aveva settantasette anni. Sul suo pensiero scrive qui Bruno Gravagnuolo.

 

La morte di Giuseppe Cacciatore filosofo salernitano ed esponente di spicco della cultura di sinistra meridionale, riapre un tema chiave della filosofia italiana ed europea. Lo storicismo esistenziale, di cui Cacciatore nel solco di Aliotta, Carbonara, Piovani, Tessitore e Aldo Masullo, fu uno dei massimi studiosi italiani. Nell’ambito della filosofia post crociana napoletana, laica, esistenzialista e marxista.

Il punto chiave di questa corrente di pensiero, nata in Italia con Vico e rielaborata in Germania da Herder ed Hegel fino al neo kantismo e Dilthey – per poi trasmigrare a Croce e Gentile – è, com’è noto, la Storia. Non solo come oggettività del sapere storico, ma come coscienza dell’agire storico e molla sia dell’azione civile sia della conoscenza. In un intreccio dinamico di prassi e teoresi e, ovviamente – segnatamente in Cacciatore – a benefico dell‘azione politica, pur con tutte le necessarie mediazioni.

Insomma “la storia come pensiero e come azione”, per riprendere un celebre saggio di Croce. Dove la storia come coscienza del passato, stimolata dal vissuto presente, si tramutava in impegno civile e responsabilità dell’agire politico. Il famoso circolo virtuoso della “storia sempre contemporanea”, che in Croce e in Weber metteva il pungolo dei problemi presenti al servizio della conoscenza oggettiva e la conoscenza a servizio dell’azione. Nessun finalismo storico, dunque, e nessuna filosofia della storia nello storicismo di Cacciatore, che raccoglieva questa densa tradizione critica. Se non appunto come riflessione problematica filosofica sulla storia, per delucidarne l’oggettività. Gli snodi, le possibilità e le alternative non percorse e spezzate o interrotte. I “sentieri interrotti”, per usare una celebre formula di Heidegger.

Era questo “lo storicismo dopo lo storicismo” teorizzato da Giuseppe Cacciatore. Storicismo problematico aperto al futuro, indispensabile al “sentire storico” delle questioni aperte sul tappeto del presente storico, del presente come massa di problemi congelati, da sciogliere tramite l’autoconsapevolezza del comune destino. E dei vincoli degli assetti consolidati che si oppongono alla libertà, alla storia come libertà e liberazione.

Insomma in Cacciatore e nel suo storicismo vitale e libertario, c’era la lezione di Nietzsche e di Gramsci. Di Marx, del Dilthey della Erlebnis come esperienza vissuta delle risonanze tra passato e presente; per fare nuova storia, e non subire o replicare quella vecchia. Una ermeneutica storica della liberazione, così potremmo definire il messaggio filosofico di Cacciatore, dove neo kantismo, post idealismo e marxismo – arricchiti di soggettività patica ed esistenzialità – convergevano nella medesima direzione. Quella di un pensiero di sinistra democratico e socialista, imperniato sul riscatto dal domino del lavoro, inteso come attività cardine di scambio tra persone nella produzione e riproduzione del mondo. Non già come mera tecnica neutra e prestazionale.

E proprio sul lavoro richiamava l’attenzione Cacciatore in un articolo-saggio pubblicato nel 2019 su Salerno Sera, ribubblicato sulla Critica Sociale il 2 marzo sempre a Salerno. Colpiva e colpisce in quel contributo un concetto: “amnesia”.

Con esso lo studioso salernitano richiamava esattamente la smemoria del lavoro e della fatica umana, rimossa in tutti questi decenni segnati da omologazione digitale, finanza, privatizzazioni, esternalità molecolari della catena di produzione. Fino alla cancellazione di ogni possibile auto riconoscimento dei soggetti individuali e collettivi, nella utilità condivisa del valore del lavoro. E con rimozione della fatica fisica e disconosciuta di un lavoro sempre più parcellizzato, invisibile e precario. Con le invisibili catene di montaggio spostate fuori e frammentate nelle filiere dei pezzi da lavorare con fatica, e poi da assemblare con la fabbrica elettronica, non priva essa stessa di stress e mansioni alienate e faticose. E inoltre con amnesia di addetti alla logistica e alla distribuzione materiale e immateriale. E creazione di un immenso esercito di riserva deprezzato e ostile agli immigrati.

Stavano nell’amnesia di tutto questo, per Cacciatore, le cause della perdita di senso e significato di una sinistra – scriveva – che preferiva in linea di principio conclamata dialogare con Marchionne piuttosto che con le proprie basi sociali, avendole considerate ormai irrilevanti e superate, benché, in forme nuove e atomizzate, esse fossero pur sempre presenti e rilevanti, specie negli inevitabili smottamenti a destra. Nel populismo e nell’astensionismo.

Amnesia, dunque, come rimozione della storia passata e recente – conquista e perdita dei diritti – e come cancellazione delle proprie radici e ragioni d’essere. Del proprio punto di vista e della propria funzione storica, annegati in governismo, paradigma egemone di impresa privata e amministrazione dei territori.

A tutto questo Giuseppe Cacciatore opponeva un necessario contro movimento: anamnesi contro amnesia! Costruzione di un partito vero. Ripresa dei fondamentali insomma.

E, come avrebbe detto Walter Benjamin, un “balzo di tigre nel passato” per riaprire l’energia possibile e liberarla dalle smemorie e dagli sviamenti del presente.