E sono tre. Non è la prima volta che la sinistra democratica italiana si dà una leadership espressione della voglia di un radicale cambiamento della sua classe dirigente.
La prima volta fu nel 2007. In realtà Walter Veltroni era già stato segretario di partito tra il ‘98 ed il 2001, ma quello era il DS, una ‘cosa’ non assimilabile in toto al PD, se non si vuole cadere in una grossolana faciloneria. Nel 2007 invece Veltroni fu il primo segretario del neocostituito Partito Democratico, in cui erano confluiti, oltre ai DS, l’Asinello, la Margherita ed altre componenti della sinistra democratica.
Sei anni prima, nel 2001, era arrivato a Palazzo Chigi per la seconda volta Silvio Berlusconi sulla scorta di una strepitosa vittoria della destra alle politiche del giugno di quell’anno. La sinistra aveva avviato quindi, e non poteva essere altrimenti, una profonda riflessione su se stessa, mentre emergevano, dopo i tempi della sinistra sommersa degli anni novanta, i girotondini, epifenomeno di una profonda insoddisfazione del corpo elettorale nei confronti dei propri gruppi dirigenti.
A fatica si ricompose una larga alleanza di centro-sinistra che, sotto la guida di Romano Prodi, riconquistò Palazzo Chigi nel 2006. Anche quel governo durò poco, il tempo di sfasciare tutto da parte di Antonio Di Pietro, ministro giustizialista che pensò bene di azzannare il Guardasigilli Clemente Mastella – che forse intralciava i suoi piani di conquista della leadership per via giudiziaria – col concorso di Walter Veltroni, la cui teoria della vocazione maggioritaria minacciava di eclissare i partiti minori, a cominciare dalla stessa UDEUR di Mastella. La breve esperienza del Prodi II si concluse tristemente l’8 maggio del 2008. Si andò alle elezioni e Veltroni, candidato premier del centro-sinistra soccombette nello scontro col mai domo Silvio Berlusconi.
Nelle more era nato il Partito Democratico e proprio Walter Veltroni ne era stato il primo leader.
Il primo segretario nazionale del neonato partito fu un ‘irregolare’. Persona di una cultura versatile, scrittore, saggista, regista, critico musicale e cinematografico, giornalista, finanche commentatore sportivo – magnifico il suo ‘Il calcio, una scienza da amare’ – attento a tutte le correnti del pensiero democratico del mondo, militante e dirigente della Fgci prima e del Pci poi sempre dicendosi non-comunista, fu il primo a importare nella cultura e nel lessico della sinistra italiana le idee di Bill Clinton e di Tony Blair. Insomma, di lui tutto poteva dirsi tranne che fosse espressione della grigia burocrazia di partito. Memorabile il suo discorso al Congresso di Firenze dell’aprile 2007, che mise la parola fine alla storia dei Ds e quello del Lingotto di Torino di pochi mesi dopo, che vide la nascita del Pd.
Non ce la fece il brillante Veltroni – che già durante la sua segreteria dei Ds di fine secolo aveva evidenziato una certa inadeguatezza a gestire le lotte interne tra le varie correnti e gruppi di potere – quando alle liti interne dei Ds si aggiunsero quelle degli eredi della vecchia Democrazia Cristiana. Mentre lui incrociava le lame in Parlamento con la destra e intesseva legami con la sinistra democratica dell’Occidente, i vari leader e capicorrente si spartivano il territorio.
Gli successe Dario Franceschini, pochi mesi e ciao ciao. Fu poi la volta del buon Pier Luigi Bersani, quello della ‘ditta’, uomo mite e orientato alla gestione non conflittuale delle correnti. Fu umiliato in diretta streaming da due grillini della prima ora, Roberta Lombardi e Vito Crimi, mentre tentava di aprire con loro un impossibile dialogo. Provò a portare al Quirinale in prima battuta Franco Marini ed in seconda Romano Prodi. Sembrava fatta per Prodi, quando una fronda di 101 parlamentari, ordita dall’emergente Matteo Renzi, chiarì inequivocamente che Bersani era ormai un segretario solo sulla carta. Lui ne prese atto e lasciò il Nazareno a Guglielmo Epifani, che vi restò pochi mesi, fino alle primarie del dicembre 2013 che portarono alla leadership il vulcanico rottamatore Matteo Renzi.
E siamo a due. Per la seconda volta nella pur breve vita del Pd un irregolare, chiamando a raccolta la base contro i vertici del partito, trionfava nelle primarie. Una volta eletto ci mise poco a dare il benservito al Capo del Governo, Enrico Letta, espressione del suo stesso partito e poco avvezzo alle sue scaltrezze. Si insediò a Palazzo Chigi e in verità impresse una forte spinta riformatrice all’azione del governo. Il Jobs Act, gli 80 euro a sostegno dei più poveri, Industria 4.0, lo Sblocca Italia, l’attenzione ai diritti civili ed il contrasto al giustizialismo, soprattutto la Riforma della Costituzione furono risultati importanti del suo governo. Trascurò però il partito e i capicorrente cominciarono a tagliargli l’erba sotto i piedi. In verità ci mise molto del suo ad autorottamarsi. Affetto da un narcisismo ai confini con l’egolatria, pensò di infinocchiare tutta la politica italiana con le sue trame. Inescusabile l’affossamento della sua stessa Riforma Costituzionale. Ma come, stringi un accordo con la destra e con Berlusconi – com’è giusto che sia trattandosi di materia costituzionale – grazie a questo accordo ottieni nei primi passaggi parlamentari più dei due terzi dei voti ed hai la riforma in tasca, e con un raptus di megalomania fai saltare tutto sull’elezione del Presidente della Repubblica cercando di fregare Berlusconi con cui hai siglato il ‘Patto del Nazareno’? Imperdonabile! Il cavaliere ritirò l’appoggio alla riforma, invitò a votare NO al referendum del 4 dicembre del 2016 e fu la fine del secondo ‘irregolare’ alla guida del Pd.
Alla guida del partito ritornò quindi la pacata, rassicurante nomenclatura della ditta. Dopo brevi interregni sarà la volta di Nicola Zingaretti, già presidente della Regione Lazio, che guida il Pd tra il ‘19 ed il ‘21, quando si arrende alle correnti, prende atto che il loro potere, ben radicato nei territori, interdice la possibilità di governo nazionale del partito, e si dimette. Gli subentra Enrico Letta, che promette di gestire il partito in piena autonomia dalle correnti, ma era stato scelto proprio da esse in una classica concertazione da ‘caminetto’ politico. L’unico punto su cui tutte le correnti si trovano d’accordo è il sostegno al governo tecnico-politico di Mario Draghi. Quel governo avrebbe dovuto – e potuto – concludersi con l’elezione di Mario Draghi al Quirinale. E qui ancora una volta ci mette lo zampino l’ineffabile Matteo Renzi, intanto uscito dal Pd e leader di Italia Viva. Comincia a sparigliare le carte, la mattina si allea con uno e la sera con un altro, fino a quando i parlamentari tutti, sfiniti dopo sette votazioni andate a vuoto e imbarazzati per l’indegno spettacolo che stanno dando al Paese mentre la pandemia è ancora in corso e si sente aria di guerra in Ucraina, vanno in processione da Mattarella, che aveva già traslocato, per chiedergli di tornare al Quirinale. Ancora una volta un segretario del Pd non si dimostra capace di governare i suoi parlamentari e di gestire politicamente un passaggio cruciale per la vita del Paese.
Inevitabile il crollo dei consensi alle politiche del settembre ‘22 – che portano al governo la ‘sorella d’Italia’ Giorgia Meloni – ed alle regionali del 12 e 13 febbraio ‘23, con la perdita del Lazio da parte della sinistra democratica.
Arriviamo così alle primarie dello scorso 26 febbraio. Per la terza volta una rivolta della base manda ai propri cristallizzati ed impermeabili gruppi dirigenti un segnale inequivoco di profonda insoddisfazione.
Elly Schlein, fino a qualche settimana fa neanche iscritta al PD, parla la lingua di Obama, di cui è stata anche collaboratrice, posiziona il partito sui diritti civili, sull’emergenza ambientale e nel campo lib-lab dell’Occidente, ha una straordinaria capacità comunicativa – buca il video e sa ben utilizzare i social – porta una ventata di freschezza non solo nel campo della sinistra ma in tutta la politica italiana. E promette ancora una volta di ‘rottamare’ la vecchia nomenclatura. Ce la farà? Intanto alle primarie ce l’ha fatta anche col supporto di una parte della vecchia nomenclatura. La più ‘vecchia’, quella della fu ‘ditta’.