Dal libro “Andata in porto” di Giuseppe Soriero emerge un duplice aspetto della lunga e complessa questione riguardante il porto di Gioia Tauro: quello storico, di ricostruzione puntuale e dettagliata delle vicende che hanno riguardato il terminale e il suo intorno territoriale; quello strategico, di proiezione di quella realtà porto-territorio in una prospettiva inquadrata all’interno del contesto nazionale, europeo e mediterraneo.
La storia
Per quel che riguarda l’aspetto storico, lo scritto va a coprire un evidente vuoto di conoscenza di Gioia Tauro, una realtà di cui molti parlano ma pochi conoscono effettivamente.
La vicenda inizia formalmente a seguito di tre delibere CIPE: del 1970, per la realizzazione del V Centro Siderurgico; del 1971, relativa alla sua localizzazione a Gioia Tauro; del 1974, di un finanziamento di 582 miliardi di lire affidati a Finsider per la fase realizzativa. Seguirà, il 25 aprile 1975, la posa della prima pietra per la costruzione del porto.
Ma quando queste decisioni e i primi interventi si calano sul territorio avvengono fatti concomitanti di portata non facilmente prevedibile e con effetti stravolgenti rispetto alle logiche che li avevano determinati.
Il primo è la crisi mondiale nella produzione dell’acciaio che rende inutile dal punto di vista economico-produttivo un nuovo centro siderurgico. Ma era già iniziata una operazione di eliminazione di quella che l’Autore descrive come “la più grande foresta di ulivi e arance della Calabria”, che porta con sé uno stravolgimento del paesaggio storico e una pesante ipoteca sulla sopravvivenza di una società sostanzialmente legata all’agricoltura.
E’ da questo stravolgimento dell’ambiente naturale e dalla messa in crisi del modello di vita rurale che prende piede nelle comunità locali la netta opposizione alla proposta avanzata dall’ENEL di realizzare, in sostituzione del centro siderurgico, una mega centrale elettrica a carbone. Una opposizione gestita dal “Comitato dei Sindaci della Piana” che insieme alle associazioni ambientaliste promuove un referendum che boccia con grandi numeri la proposta.
Siamo alla fine del 1985 e l’azzeramento delle ipotesi su cui era nata l’intera operazione Gioia Tauro porta ad una riflessione sul ruolo del porto, la cui costruzione andava avanti già da dieci anni, che fa nascere l’idea di farne un terminale container in linea con le tendenze che si stavano manifestando in quegli anni nel settore dei trasporti.
Il passaggio decisivo si ha con l’interessamento di Angelo Ravano, un imprenditore genovese che, ricorda l’Autore, “intuì che lì al centro del Mediterraneo, a due passi dalla linea che collega Suez e Gibilterra, poteva sorgere una grande piattaforma logistica”.
Nel 1993 il Governo sottoscrive con la Contship Italia di Ravano un Protocollo d’intesa, perfezionato nel 1994 sotto forma di Accordo di programma, per “la realizzazione e utilizzazione piena del nuovo porto di Gioia Tauro” con uno stanziamento complessivo di 420 miliardi di lire, di cui 132 pubblici.
A distanza di poco più di due anni – l’11 settembre 1995 – la prima nave attracca in quello che diventa un terminal container che negli anni successivi vedrà un netto incremento dei volumi di traffico, grazie anche ad una particolare attenzione all’intrapresa da parte del Governo Prodi 1 (1996-1998) nel quale Giuseppe Soriero svolge un ruolo decisivo in qualità di Sottosegretario al Ministero dei Trasporti e della Navigazione.
Poi ancora vicende imprenditoriali: il subentro al posto della Contship di una società di Amburgo (1999) che trasferisce all’estero la governance del porto Gioia Tauro; l’ingresso come terminalista della Maersk, primo vettore marittimo mondiale; l’arrivo sempre nel 1999 di BLG Logistic di Brema, che attiva un hub per il trasporto di automobili in modalità Ro-Ro.
Dal canto suo l’operatore pubblico avvia la elaborazione di un Master Plan (1997); istituisce la Capitaneria di Porto (1997) e l’Autorità portuale (1998); avvia la realizzazione di una infrastruttura strategica come il gateway ferroviario.
Cosicché, grazie all’azione congiunta pubblico-privato, il porto di Gioia Tauro va ad assumere un ruolo da protagonista nella gestione dei traffici merci che entrano da Suez diretti verso i porti del Nord Europa.
I problemi certo non mancano e, primo fra tutti, il gravame della mafia locale che si incunea nel funzionamento del porto con i propri traffici illeciti, a partire dalla richiesta di “pizzo” su ogni container in transito, alla quale, però, si oppone un deciso intervento della magistratura e delle forze di polizia.
Nel complesso, dice l’Autore, “in soli tre anni (1996-1998) un vero e proprio capovolgimento trasforma lo scalo calabrese nella sfida più alta per l’innovazione nel Mezzogiorno”.
Viene, però, il tempo del declino causato dalla crisi economica mondiale del 2008 e dalle scelte imprenditoriali del terminalista Medcenter che sposta altrove i suoi traffici, al punto che il movimento di container crolla da 3,4 milioni di TEU nel 2008 a 2,3 milioni nel 2011. Si apre una crisi profonda che raggiunge il culmine nel 2017 con il licenziamento di centinaia di lavoratori e fa apparire lo spettro di una eventualità che sembrava impossibile: la chiusura del porto.
A scongiurare questo clamoroso fallimento interviene un’iniziativa tanto insolita quanto lucida nelle sue implicazioni: l’Autorità portuale di Gioia Tauro intima alla Medcenter il ritiro della concessione “in quanto era venuto meno l’interesse pubblico posto alla base dell’originaria stipula”.
Una svolta decisiva che apre la strada all’arrivo di un nuovo imprenditore – la MSC di Gianlugi Aponte – il cui piano, ricorda l’Autore, prevedeva “importanti investimenti, programmati ed effettuati dal terminalista e sostenuti anche dagli investimenti pubblici dell’Autorità portuale di Gioia Tauro (…) Si stava così costruendo la strada della rinascita del porto, che avrebbe ridato a Gioia Tauro centralità nello scacchiere internazionale del transhipment”.
Dice Aponte arrivando a Gioia Tauro nel dicembre del 2019: “Faremo di Gioia Tauro il primo terminale container del Mediterraneo”.
Non a caso l’ultimo capitolo del libro è titolato “Da Ravano ad Aponte”, ad indicare le due figure-simbolo che impersonificano l’inizio della storia del porto di Gioia Tauro e la sua condizione attuale, che Soriero fissa con un dato inequivocabile: “Alle ore 8:00 del 2 gennaio 2023, sono presenti in contemporanea 17 navi attraccate lungo le banchine del porto, il numero più alto mai registrato”.
La strategia
Dove la storia finisce inizia la strategia, l’altro aspetto saliente che emerge dalla “Andata in porto” e riguarda la direzione da intraprendere per far si che Gioia Tauro – il porto, il suo territorio, la Calabria – siano collocati al centro delle dinamiche di trasformazione in atto nel Mediterraneo.
Soriero lo fa partendo dal presupposto che se la sfida del terminalista sembra vinta, anche perché sono state avviate opere di potenziamento dello scalo, ben diversa è la situazione di tutto quello che occorre sul versante delle strategie economiche, territoriali, sociali e ambientali da porre in essere per avviare un complessivo processo di sviluppo.
Ci sono, anzitutto, ostacoli da rimuovere e rischi da controllare: c’è il permanere di una certa diffidenza da parte degli omologhi porti del Nord, che si muovono ancora in una logica concorrenziale anziché cooperativa; c’è il lascito del dissennato scontro tra lo Stato e l’ASI di Reggio Calabria; c’è l’ingiustificabile ritardo nel realizzare il raccordo ferroviario tra la Piana e la rete nazionale; c’è il sempre presente problema dell’inquinamento mafioso.
Ma c’è, soprattutto, da mettere a punto un sistema di azioni e di interventi capaci di riverberare sul territorio il potenziale rappresentato dal porto.
Dice l’Autore: “Resta l’eterna incompiuta, quel retroporto unico e vasto nel panorama portuale italiano. E’ lì che occorre vincere la vera strategia dello sviluppo mai realizzato negli anni, in quell’area disseminata da capannoni fantasma, figli di vecchi e vetusti piani industriali morti ancora prima di nascere, che si giocherà il futuro della regione”.
Come fare è cosa non facile a dirsi, ma Soriero porta all’attenzione alcune linee e proposte che sembrano di sicuro interesse: far giocare un ruolo di primo piano alla Zona Economica Speciale nella sua accezione originaria di misura eccezionale per le aree portuali strategiche; realizzare un “polo di trasformazione agroalimentare nel retroporto (…) specializzato in più fasi del ciclo di produzione dei prodotti agroalimentari; costruire reti di connettività con altri nodi infrastrutturali portanti, come l’aeroporto di Lamezia e i porti di Corigliano, Crotone e Vibo Valentia; avviare “la qualificazione urbanistica del territorio attorno al porto con nuove caratteristiche tra produzione, residenza e servizi”; rilanciare il progetto di Città della Piana.
Si tratta di proposte, progetti e interventi complessi e di non facile attuazione, ma non vi è alternativa al perseguirli per una realtà come quella di Gioia Tauro, per una regione come la Calabria e per l’intero Mezzogiorno che continua a permanere in una condizione di ritardo rispetto al resto del Pese e in cui cresce il fenomeno della migrazione, soprattutto di giovani, verso il Nord.
Dunque, dice in conclusione Soriero: “L’economia del mare può indicare nuove mete per la Calabria e per l’intero Paese. Da Gioia Tauro l’Italia parla all’Europa con il linguaggio della speranza, proprio da un luogo diventato il simbolo di una possibile sfida vincente”.
Una nota a margine
All’interno del suo ponderoso e puntuale lavoro l’Autore fa anche un rapido cenno alla questione del Ponte sullo Stretto, ricordando la lunga e intricata controversia circa la fattibilità, che va dai primi anni ’70 del secolo scorso fino alle recente posizione del governo in carica che rimette in campo l’ipotesi della realizzazione.
Chi scrive ha studiato a lungo la questione, ne ha scritto più volte ed ha anche assunto atti deliberativi quando, tra il 2006 e il 2008, ha gestito di concerto con il Presidente Prodi il tema della mobilità nel meridione e nella sua proiezione mediterranea. La posizione era netta e inequivoca: la priorità è il porto di Gioia Tauro, al quale venne anche assegnato un finanziamento straordinario di 50 milioni di euro con la legge finanziaria 2007; il ponte è palesemente inadeguato per la finalità che si propone di collegare l’Europa all’Africa; è peggiorativo per le relazioni tra le città dello Stretto; è devastante per le implicazioni che avrebbe sull’ambiente.
Oggi la comunità scientifica è largamente convergente su questa posizione, ma dalla lettura del libro di Soriero si desume qualcosa in più, vale a dire che il progetto del Ponte sullo Stretto è antinomico rispetto a quello del Porto di Gioia Tauro.
Se vuoi sviluppare una strategia per il consolidamento della centralità del terminale di Gioia Tauro, se vuoi avviare un processo di crescita e riqualificazione del territorio circostante, se vuoi coinvolgere altri porti e territori della Calabria, insomma se vuoi perseguire una visione di alto profilo e di lunga prospettiva, il progetto del ponte si colloca all’opposto perché è privo di un’idea complessiva del territorio, è incapace di comprendere le dinamiche urbanistiche ed è cieco di fronte ai problemi di sostenibilità ambientale.