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Dal Sebéto al Rubeolo il passo era breve

by Federico L.I. FEDERICO
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Sulle colonne digitali di questo giornale stiamo indagando l’idrografia fluviale di Napoli, grande città di mare, che ha però perduto nei secoli – disperdendolo soprattutto in età contemporanea – il proprio patrimonio idrologico d’acqua dolce.

Pertanto, abbiamo già parlato del fiume Sebéto, napoletano per eccellenza, un tempo ben noto a Napoli e a coloro che vi si recavano. Noi lo abbiamo definito il fiume dalle sette vite perché è scomparso e ricomparso più volte, anche in seguito a fenomeni vulcanici del Vesuvio, sulle cui alture esso aveva alcune proprie sorgenti.

In epoca medievale il Boccaccio in persona, arrivato a Napoli, cercò invano il Sebéto – che aveva preso il proprio antico nome dal Greco Sepéitos, che significa impetuoso – e dovette… accontentarsi del Rubeolo, fiumicello più piccolo, che spesso poi dagli storici è stato confuso con l’altro. Il Sebéto però era tale nel suo tratto pedevesuviano, prima di arrivare nell’area orientale della Città, piatta e paludosa, fuori dalle mura aragonesi, dove diveniva docile.

Ci dà ragione un passo del poeta napoletano, l’accademico Jacopo Sannazaro che, all’alba del Cinquecento, nella sua Arcadia scrive così: «…Mi parea fermamente essere nel bello e lieto piano … e vedere il placidissimo Sebeto, anzi il mio Tevere, in diversi canali discorrere per la erbosa campagna, e poi tutto insieme raccolto passare soavemente sotto le volte d’un piccolo ponticello, e senza strepito alcuno congiungersi con mare».

Il poeta Sannazaro paragona quindi al Tevere il Sebéto, ma del Rubeolo non fa alcun cenno.

La domanda senza risposta è: il Rubeolo era quindi già scomparso in epoca rinascimentale? Chissà… certo è però che il Rubeolo – forse detto così per il colore rosso, in latino “rubrum”, dei suoi limi ferruginosi che trascinava a valle dalle pendici vesuviane – era famoso già in epoca angioina per il ponte che lo sovrapassava nella zona paludosa periurbana di Napoli, la stessa irrorata dal Sebéto.

In quel sito si inarcava il pons padulis, chiamato anche, in epoca angioina, Ponte Guizzardo e anche Licciardo. Ma quello stesso ponte, in epoca successiva, divenuto poderoso, a più arcate e monumentale, fu detto definitivamente anche Ponte della Maddalena. Così, ancora oggi, chiamano il sito i Napoletani d’antan, quelli dai capelli bianchi, o almeno brizzolati. Nel sito infatti vi era una chiesetta, antichissima, dedicata appunto alla Maddalena.

Era una zona extramurale che contava però una trentina di molini idraulici, in un’area malsana, che poi non a caso accolse la Chiesa di S. Anna alle paludi. Per il lettore aggiungiamo soltanto che siamo poco lontano dall’attuale Palazzo della Agenzia del Demanio, già più noto come Caserma Bianchini.

E si narra tra gli esperti equestri che in quel sito, straricco d’acqua dolce, si stanzializzò una popolazione di cavalli particolarmente forti – forse ritornati allo stato brado per inselvatichimento – che poi prese il nome appunto di “Cavalli della Maddalena”. Ora ci sembra opportuno ricordare che, in una propria novella del Decamerone, lo stesso Boccaccio, cronista del Sebéto e del Rubeolo, narra di un tale Andreuccio da Perugia, commerciante e scozzone di cavalli. Questo Andreuccio, per fare buoni acquisti, si reca a Napoli, affrontando la non facile trasferta nell’Italia d’allora, come probabilmente aveva fatto l’Autore del Decamerone, poi ispirato dai luoghi.

Dunque Napoli, la capitale del più grande e antico degli stati della penisola italiana, era già nota evidentemente non solo per le sue acque dolci, ma anche per i buoni cavalli che pascolavano appena fuori città, nella zona degli orti dei “parulani” e dei canali alimentati dai suoi fiumi Rubeolo e dal Sebéto, che facevano muovere i molini idraulici della Maddalena. Et donc, tout se tient….