“Se la natura fosse stata più ospitale, l’umanità non avrebbe mai inventato l’architettura”. Oscar Wilde apre un insolito spazio di riflessione sulla misura dell’inutile che spesso ingombra il vuoto dell’architettura con l’inganno della retorica.
Che cosa è l’inutile? Per Borges il dovere di ogni cosa è essere felicità, se non sono tali le cose sono inutili o dannose; l’architettura, come quasi tutto, non può rendere felici, ma deve dare serenità altrimenti è dannosa.
Nella seconda metà del diciottesimo secolo una considerevole parte della popolazione lascia la campagna per stabilirsi in prossimità della fabbrica, la prima Rivoluzione industriale offre una prospettiva, forse illusoria, di un habitat più sereno in vece dell’ambiente inospitale della natura; in questa dinamica l’architettura inizia a rivelarsi un danno anziché una risorsa.
Per rispondere alla necessità di alloggi per i lavoratori, agli inizi del milleottocento Fourier annuncia l’utopia del Falansterio, una smisurata costruzione, che di seguito Godin ripropone in dimensioni più contenute: il Familisterio.
Il Falansterio accoglie fino a più di duemila persone, include servizi alternati a spazi ricreativi, e si struttura come bene comune fondato sulla proprietà societaria: nobile quanto inattuabile programma.
È una scelta filosofica di matrice illuminista, il primato della ragione nel perimetro dell’austero rapporto sintagmatico fra le parti, di fatto il rigore di questo processo allontana la gestualità che deve animare la crescita della città.
Diverso è il pensiero enunciato nelle “Utopie realizzabili” che Yona Friedman espone nel 1974, s’incardina sulla formazione di piccole comunità qualificate dal ruolo egemonico dei rapporti umani che rendono ospitale l’insediamento urbano.
Nello stesso periodo, a Roma si avvia un esteso programma di ampliamento del patrimonio edilizio pubblico diretto fronteggiare l’emergenza abitativa, la radice progettuale dei fabbricati mutua, non dichiaratamente e nell’inconsapevolezza dei suoi effetti, l’utopia del Falansterio.
La soluzione diventa il problema e si entra nella dimensione dell’inutile dannoso fino a riconoscercene nella demolizione un possibile rimedio, è il caso di una parte del ”Laurentino 38” ed è il dilemma irrisolto del complesso residenziale di Corviale.
Sono ben quaranta gli architetti incaricati di redigere questo progetto che, in breve, si afferma come una drammatica lacerazione del paesaggio … “Mihi crede, felix illud seculum ante architectos fuit” Seneca a Lucilio!
Un acre chilometro cementizio alto trenta metri, esplicita abiura a ogni sintonia contestuale e, prioritariamente, al rispetto della comunità locale espropriata, per effetto di questa cinta, del diritto all’immagine della campagna romana: è il timbro erosivo del Falansterio.
Gli appartamenti sono abitati ma, come in una fotografia surrealista nell’esegesi di Benjamin “Tutti questi luoghi non sono solitari, bensì privi di animazione; in queste immagini la città è deserta come un appartamento che non ha trovato ancora gli inquilini”
Su una parete esterna un graffito “Corviale, morire di angoscia” nei suoi interminabili ballatoi il tempo sembra essere scandito non dal sole ma dalla discontinua illuminazione artificiale, il piano riservato a negozi è deserto, tutto è brutto perché, con Leon Battista Alberti, il brutto è indice di errore.
In questi stessi anni alla Facoltà di architettura della Sapienza, dove insegnano alcuni dei quaranta, si parla di semiotica con esplicito riferimento al rigoroso strutturalismo di Ferdinand de Saussure: è la scaturigine dell’errore.
Si dibatte sulla “langue” e la “parole” nella pretesa di ricavarne un sistema formale utile alla progettazione (chissà in che modo!) per contro si ignorano gli studi sul dinamismo del linguaggio trasformazionale cui Noam Chomsky dedica pubblicazioni da più di venti anni.
Indubbiamente non c’è pensiero se non nella disponibilità di un repertorio lessicale adeguato alla sua comprensione, questo riguarda anche la produzione architettonica; restando nell’ambito dell’edilizia sociale recente, si osserva come il linguaggio vernacolare del Neorealismo postbellico testimoni un’efficace interpretazione contestualizzata di un modo di pensale l’abitato.
Nel quartiere INA Casa al Tiburtino, eccellente esempio neorealista, la progettazione non si limita all’immagine ma intrude l’essenza dell’architettura, quell’essenza che già la millenaria filosofia del Tao individua nello spazio interno al fabbricato, in ciò che non solo appare, ma che prioritariamente si vive come luogo. All’interno del menzionato programma di edilizia pubblica romana degli anni Settanta, si inserisce il complesso del “Laurentino 38” che segue un percorso attuativo analogo al piano di Corviale.
Questa somma di contenitori abitativi, non si può definire quartiere, non ne ha i predicati, è privo di nome: Laurentino 38 non è altro che la sigla assegnata nell’elencazione degli interventi di edilizia economica e popolare, così viene chiamato il programma ex legge 167: l’incipit non sembra preludere ad esiti soddisfacenti!
Si caratterizza per la presenza di torri abitative collegate da ponti pedonali situati alla base di questi volumi, il tutto è sospeso sull’intreccio viario locale e delinea uno scenario ostile dominato dal panorama del traffico sottostante; si avverte la paradossale determinazione del calviniano Barone rampante a non voler scendere nell’ambiente malato.
Il reticolo dei cavalcavia, sede di apatici servizi pubblici e privati, si risolve in un sistema disanimato bidirezionale privo di sorprese, della serena avventura di una passeggiata, di luoghi riconoscibili cui semplicemente riferirsi per un appuntamento; qui si consuma unicamente il rituale dell’alienazione.
Alla ricerca di un rimedio, periodicamente si ripropone la demolizione dei ponti, un inutile ingombro, ma non è certo la soluzione: la mutilazione non dà spazio alla vitalità, testimonia solo l’atto della privazione.
Purtroppo l’elenco di complessi abitativi affetti da patologie di degrado ambientale non è breve: le Vele di Scampia la cui demolizione conclude una storia di disperazione e di violenza, lo Z.E.N. di Palermo, Tor Bella Monaca a Roma e tanti altri di cui si dibatte per trovare una possibilità di riscatto.
Paradossalmente queste costruzioni sono preordinate per una funzione abitativa ma il termine casa, dalla radice sanscrita Ska, coprire, rimanda all’idea di protezione e non è ciò che fanno, sono pertanto inutili e l’abbattimento è la fine inesorabile perché, ammonisce Goethe “Una vita inutile è una morte anticipata”.
Queste realtà aberranti sono anche opportunità mancate, fra il 1907 e il 1920 a Roma sorgono gli eccellenti quartieri operai di Testaccio, chiamato “Quartiere dei Gasisti e dei Conciatori” e della Garbatella per i lavoratori portuali, il costruttore è l’Istituto Case Popolari; non sono esercitazioni calligrafiche né tantomeno Falansteri ma modelli per iniziative future, sono utopie realizzate.
L’insegnamento è disatteso o, peggio ancora, si apprezza nostalgicamente solo la forma e la decorazione delle facciate; permane tuttavia la prospettiva di un possibile recupero purché inscritto, come nei quartieri sperimentali europei dei primi decenni del secolo scorso o di più recente costruzione, in un ampio dibattito architettonico in grado di richiamare esperienze culturali plurime e di grande respiro.
Va in ultimo ricordato il pensiero di Schopenhauer: l’architettura è una delle forme espressive dell’arte mediante la quale l’uomo si sottrae al mondo fenomenico e dimentica momentaneamente il proprio dolore.