Non sorprenda che si ricordi qui, insieme, due ex calciatori, morti tra ieri e oggi, e che entrambi sono stati in epoche diverse bandiere e capitani della Juve. Spesso il passato è più vivo nel presente di quanto non si pensi. Come del resto il futuro. Entrambi – passato e futuro – sono determinazioni del presente. Qui ricordiamo e qui immaginiamo il futuro. Per questo Ernesto Castano e Gianluca Vialli sono in fondo vicini.
Castano fu uno dei grandi difensori bianconeri di quegli anni. Tra la fine dei ‘50 e l’inizio degli anni ‘70. Unitamente a Salvadore, anche lui andato via da poco. Deciso nel contrasto ma anche elegante e capace di impostare. Con Salvadore, negli anni, si scambiavano di continuo di ruolo. Difficile stabilire chi fosse il libero e chi lo stopper. Castano aveva giocato anche nella Triestina, dove anni prima il patron Rocco aveva inventato il ruolo di libero, l’uomo dietro tutti a protezione del portiere. Da quella invenzione uscirono figure di grande qualità calcistica. Picchi nell’Inter, Janich nel Bologna, Maldini (padre) nel Milan, Ronzon nel Napoli. Alla Juve furono Castano e Salvadore. Anche se il primo – pur duro – in qualche modo aveva di più qualcosa che ritroviamo poi anni dopo in Scirea.
Di Vialli che dire? In queste ore ne stanno parlando tutti. Anche pensando a lui torna il tema del tempo, in questo caso quello che ti è dato da vivere. Essere fatti di tempo segna la nostra finitezza, il limite dell’umano. A questa riflessione spinge lo spegnersi del sorriso di Gianluca. Il modo garbato, gentile, con cui si è congedato. Direi quasi rassegnato. Aveva certo voglia di vivere ma ha saputo fare i conti col suo tempo, che è stato tanto splendente prima e tanto amaro e doloroso nella seconda parte. Niente lezioni, per carità, solo un sobrio e commovente cammino, culminato con le lacrime – insieme di gioia e dolore – in quell’abbraccio con Roberto Mancini dopo la vittoria europea. Avevano colto insieme il primo grande successo, appena ragazzi, con lo scudetto della Samp.
In quegli anni andavo raramente allo stadio ma quel giorno – stagione ‘90 ‘91 – che vinsero a Napoli c’ero. Gli azzurri, già un po’ in affanno ma ancora con gente come Careca e Diego in campo, viaggiavano tra sesto e settimo posto. La sfida con la Samp capolista poteva essere il crocevia tra ripresa e declino. E fu il declino. Ero arrivato in tutta fretta da Roma – in quegli anni vivevo lì facendo parte della segreteria nazionale di Dp – perché sentivo come tutti il significato di quella sfida. E in quel S. Paolo gremito conobbi l’amarezza della fine del ciclo del Napoli di Maradona ma anche il privilegio di assistere alla consacrazione dei campioni Vialli e Mancini. Il Napoli non demeritò e addirittura andò in vantaggio con Incocciati. Ma Vialli e Mancini, con due reti a testa, e che reti, misero le cose a posto e sigillarono un risultato anche simbolico.
Il tempo, il tempo, questa variabile che tutti ci accomuna. Questa misura delle cose. Il nesso tra la morte e il tempo è presente acutamente in tutta la storia della filosofia. Ne ha scritto Hegel pagine complesse. Ma nessuno dei grandi pensatori si è sottratto al tentativo di elaborarne il senso. Per Paul Ricoeur, maestro del mio amico Domenico Jervolino, a sua volta vero successore designato del francese, il problema si risolveva nella narrazione. Altri (Aristotele) parla di tempo cosmico. Agostino del tempo dell’anima e di qualcosa nel rapporto tra l’uomo e il tempo che in fondo ci trascende dominandoci.
Strano questo concetto pensando al Vialli dominatore, capitano juventino, leader di grande energia che alza la coppa campioni al cielo. Di tutti questi significati che la storia del pensiero attribuisce al tempo, anche se forse solo istintivamente, alla fine Gianluca Vialli mi è sembrato consapevole. E questo forse è il motivo principale della grande commozione che sta suscitando la sua fine.