Siamo un popolo lamentoso, non ce ne va bene mai una, la lagna è la nostra specialità e proprio per questo siamo capaci di sorprendere il mondo quando nessuno ci dà più un briciolo di credito.
Non è un paradosso, l’essere umano è l’unica specie vivente che si lamenta. Gli animali vivono asserviti alla natura, vi si adattano o vi soggiacciono, non cercano di modificarla a proprio vantaggio. Gli uomini no, non accettano il dominio della natura; la trasformano, la antropizzano, la soggiogano alle proprie esigenze e, una volta modificata, scoprono che non basta, ne sono insoddisfatti, si lamentano e spingono chi ha il potere di decidere quello che si fa e quello che non si fa a cambiare ancora. La lagna è la molla del progresso.
L’insoddisfazione dei cittadini, alimentata dalle forze politiche di opposizione che, indipendentemente da quali esse siano pro tempore, hanno tutto l’interesse a raffigurare un Paese in cui tutto va male – se dicessero che le cose vanno bene quali speranze avrebbero di erodere il consenso di chi governa? – si trasmuta in sprone a far meglio per chi sta guidando la barca. E così anche l’Italia, per antonomasia il fanalino di coda nell’opinione corrente di noi italiani, va avanti. C’è una costante: la percezione che noi abbiamo dell’Italia è per lo più negativa, a volte finanche deprimente, ma ad essa non corrisponde la realtà.
I dati di recente pubblicati dai principali istituti di ricerca, italiani e non, fotografano un Paese molto diverso da quello che nel decennio appena trascorso abbiamo percepito ed ancora oggi ci figuriamo in maggioranza. In particolare da tali dati emerge una performance del pur breve governo Draghi addirittura strabiliante. Tanto che anche la scontata tiritera comune a tutti i governi entranti, quando di segno politico avverso all’uscente – ‘abbiamo trovato le macerie, ora aggiustiamo noi le cose’ – non ha trovato audience quando è stata tentata dal nuovo governo. E la stessa premier Giorgia Meloni, nel rivendicare i risultati raggiunti dal suo governo in tre mesi, non ha potuto sottacere i meriti del suo predecessore.
Ma vediamoli questi dati.
A gennaio 2020 l’OMS certificò che il mondo era investito dalla pandemia da coronavirus SARS-CoV-2. Di qui, in assenza nei primi mesi di alcun vaccino, le misure di profilassi sociale, lockdown su tutte, che non poterono che comportare un crollo del Pil. Fuori dalla Cina, l’Italia fu il primo Paese ad essere attaccato dal virus quindi, giocoforza, quello meno preparato a fronteggiarlo. I primi mesi furono terribili, si temette anche per la tenuta delle istituzioni democratiche. La nostra economia fu tra quelle più colpite del mondo occidentale. Tutti pronosticarono, quando non il crollo della nostra economia, quanto meno difficoltà enormi per risalire la china una volta che sarebbe passata la pandemia. E giù a sproloquiare sui ritardi strutturali del nostro sistema industriale e finanziario ed altro. Ebbene, in due anni, 2021-’22, il Pil italiano è cresciuto del 10,6%, più di ogni altro Paese europeo ed extraeuropeo, più degli Stati Uniti, più della Germania, della Francia, del Regno Unito, più della Cina.
Grandi meriti ha avuto in ciò l’ex premier Mario Draghi, il quale si è avvalso anche del lavoro dei precedenti governi, com’è ovvio. In particolare va ricordato il Piano Industria 4.0 del governo Renzi, che ha favorito negli anni in modo molto significativo gli investimenti e la diversificazione produttiva in Italia, e il Jobs Act, su cui ne furono dette di tutti i colori, ma che determinò una crescita dell’occupazione pari a +1,2 milioni di occupati. Vero, tuttavia l’ex Presidente del Consiglio ci ha messo del suo, altroché, e non solo sul terreno economico, che è il suo specifico.
La sua gestione della campagna vaccinale è stata tra le più virtuose del mondo, si dia un occhio a quanto sta accedendo oggi in Cina per farsene un’idea; ha negoziato con la Commissione Europea i contenuti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in termini più che vantaggiosi per l’Italia; ha tenuto a lungo lo spread sotto i 150 punti, con grande giovamento per il rapporto del debito pubblico sul Pil, sceso al 145,7%, meno 9,2% rispetto al 154,9 del 2020, nonostante il ricorso obbligato al debito per far fronte all’emergenza; ha gestito con una tempestività sbalorditiva la crisi energetica causata dalla guerra, aprendo nuovi corridoi di fornitura di gas metano che hanno ridotto la nostra dipendenza dal gas russo dal precedente 40% al 10% attuale; è stato protagonista di primo piano per sbloccare le esportazioni di grano russo ed ucraino nella fase più aspra della guerra, contribuendo così a salvare il mondo da una drammatica carenza alimentare.
Sul piano sociale, misurati col coefficiente di Gini oggi universalmente ritenuto il più affidabile metodo di calcolo delle diseguaglianze, l’indice di diseguaglianza in Italia è sceso dello 0,8% ed il rischio povertà dell’1,8%; durante il suo mandato l’occupazione a tempo indeterminato è cresciuta per 500mila unità; il tasso di occupazione in Italia oggi è al 60,1%, il più alto da fine anni settanta, quello di disoccupazione all’8,1%, il più basso.
Sono risultati per i quali, come si è qui argomentato, grandi meriti ha avuto Mario Draghi – si insediò a Palazzo Chigi a febbraio 2021, è appena il caso di ricordarlo – ma che sono stati resi possibili anche dal quadro politico di coesione nazionale. È molto diverso governare in un contesto di solidarietà nazionale rispetto ad uno in cui si fronteggiano risicate maggioranze ed agguerrite opposizioni. Questo è evidente. Fatto sta che, comunque lo si voglia analizzare, quali che ne siano stati i meriti e le responsabilità, Draghi ha lasciato alla Meloni un Paese riassestato.
Lo custodisca la nuova premier e non ne abbandoni il tracciato. Farà bene a se stessa, alla sua parte politica ed all’Italia.