Il governo delle fonti energetiche, dalla nascita del capitalismo in avanti, costituisce uno degli elementi cruciali attorno ai quali si giocano le battaglie di potere. Il libro di Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani, “L’Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell’indipendenza energetica”, Feltrinelli 2022, ricostruisce con passione e competenza i tasselli di una storia complessa tra economia, politica, relazioni internazionali.
I pilastri di questa vicenda sono due capitani di industria ed un poeta: mai profili potrebbero essere così differenti. Enrico Mattei comincia con un atto di disobbedienza radicale: chiamato dal governo a svolgere il ruolo di commissario dell’Agip per liquidarla, così come volevano le multinazionali anglo-americane, decide invece di rilanciare questa decotta azienda di Stato trasformandola in un vettore per la trasformazione delle politiche di approvvigionamento energetico del Paese.
Questo obiettivo viene perseguito mediante la costruzione di una politica estera sul filo del rasoio, dentro la Nato ma con la capacità di dialogare sia con i Paesi arabi sia con l’Unione Sovietica, mettendo sempre al centro l’interesse nazionale. Il supporto ai movimenti per l’indipendenza delle colonie, particolarmente in Algeria, unito ad una formula di ripartizione del dividendo energetico attenta al benessere dei Paesi in via di sviluppo – mediante la regola del 75-25 – scompagina le politiche delle multinazionali, che guardano con grande diffidenza verso le scelte dell’ENI.
Giocando le sue carte con grande spregiudicatezza, Enrico Mattei riesce ad assicurare all’Italia un approvvigionamento energetico a basso costo nella fase della industrializzazione accelerata, e – attraverso la rendita metanifera – genera profitti che consentono di investire nella ricerca di nuovi giacimenti e nella costruzione di un gruppo fortemente coeso, capace di investire in imprese anche decotte che vengono ristrutturate e rese profittevoli.
E’ il caso del Nuovo Pignone, un’azienda in drammatica crisi strutturale. Il Sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, esponente di punta della sinistra democristiana, insiste più volte con Mattei perché l’Eni investa in quella impresa, sostenendo che gli era apparso più volte in sogno come il cavaliere bianco che avrebbe salvato quella realtà industriale. Prima di accettare, Mattei studia il dossier ed interviene solo quando si delinea una opportunità per trasformare quella azienda in crisi in un soggetto capace di generare reddito. Accadrà esattamente così.
L’intuito di Mattei portò a rinnovare le strutture, orientando la produzione principalmente verso macchinari e apparecchiature per l’industria del petrolio, della petrolchimica, della raffineria e del gas naturale. Dopo le prime forniture alle aziende del Gruppo ENI, la società iniziò ad ottenere importanti commesse da clienti terzi, oltre a soddisfare l’intero fabbisogno del gruppo ENI.
Le maestranze, 1.100 lavoratori assunti tra gli ex dipendenti della vecchia società, furono riqualificate per affrontare le nuove lavorazioni. Dirà poi Mattei nel 1957: “Abbiamo cominciato insieme, Direzione e Maestranze, partendo quasi da zero e superando considerevoli difficoltà. Ma in noi vi era una atmosfera di reciproca fiducia, vi era la consapevolezza di esserci accinti ad una impresa comune la quale non poteva che procedere sicura e alla quale non poteva non arridere il successo”.
Oddo e Antoniani si interrogano a lungo sulla morte di Mattei, nell’incidente aereo di Bescapè. Oggi è conclamato che si trattò di un attentato. Ma i mandanti non stavano probabilmente nelle potenze economiche internazionali con le quali Enrico Mattei stava trattando proprio nel corso dei mesi precedenti.
Raffaele Mattioli, il banchiere della Banca Commerciale, lo aveva messo in contatto con gli americani e con i francesi era in corso un negoziato per ricucire i rapporti dopo la crisi di Algeria. Il delitto matura nelle lotte di potere nazionali ed i depistaggi successivi sono stati realizzati dai servizi segreti nazionali.
Eugenio Cefis, con la carica di vicepresidente ma le deleghe di amministrazione, assume il comando dell’Eni. Ma svolge un altro gioco, completamente differente rispetto a quello di Enrico Mattei. Lavora per diventare il capo della Montedison, l’azienda che fonde Montecatini ed Edison, con l’idea che il futuro industriale dell’Italia si sarebbe giocato sulla partita chimica.
Cambia però completamente la matrice di interlocuzione con la politica: se Mattei usava la politica come i taxi, per Cefis la politica è il cuore delle operazioni. Subisce le pressioni per imbottire la Montedison di aziende decotte nel settore tessile, a partire dalla Lanerossi e dalla Marzotto. Incorpora la Standa ma non riesce a trasformarla in un soggetto di punta nella grande distribuzione. Le perdite si accumulano anno dopo anno e l’indebitamento crescere senza freno.
Cefis si muove dentro una politica sempre più fragile e percorre ipotesi di autoritarismo democratico, che oggi potremmo definire di democrazia illiberale alla Orban. In un suo famoso discorso alla Accademica di Modena, sostiene che le imprese oligopolistiche e multinazionali rappresentano la nuova formula per la direzione politica delle nazioni: in questo segue la rotta di Amintore Fanfani, che decide di andare allo scontro frontale con la sinistra in occasione del referendum sul divorzio, con i risultati che sono noti.
Nell’aprile del 1977, come un fulmine a ciel sereno, Eugenio Cefis decide improvvisamente di lasciare la Montedison per ritirarsi in Svizzera, dedicandosi ai suoi affari privati, disponendo di un patrimonio personale di tutto rispetto. Investe anche nel campo del settore televisivo, concentrando le sue attività a Cologno Monzese, mediante una società finanziaria chiamata Cefinvest. Qualche assonanza dovrebbe indurci a una riflessione, visto che siamo negli anni dell’ascesa del Cavaliere Silvio Berlusconi, tessera P2 numero 1816.
Sulla stessa guida di vertice della loggia deviata, molti hanno sostenuto che Licio Gelli non era personaggio adeguato alla direzione di un organismo così delicato: diversi hanno immaginato che il profilo di Eugenio Cefis fosse molto più rispondente al grado di pericolosità eversiva espresso dalla massoneria deviata.
Nel suo romanzo Petrolio, ripubblicato proprio nel 2022, Pier Paolo Pasolini ha raccontato, attraverso gli occhi di un alto dirigente dell’EMI, il conflitto di potere tra Ernesto Bonocore, alias Enrico Mattei, ed Aldo Troya, alias Eugenio Cefis. Questa storia incompiuta rappresenta una delle metafore che ancora restano sospese per comprendere i cambiamenti che si sono determinati nel sistema politico ed economico italiano.
A sorprenderci, è stato Marcello Dell’Utri, quando, una decina d’anni fa, sostenne che il capitolo mai ritrovato di Petrolio avrebbe contenuto la verità sull’omicidio di Enrico Mattei. Resta famoso l’articolo di Pier Paolo Pasolini su Il Corriere della Sera, titolato “Io so”, nel quale, senza averne le prove e nemmeno gli indizi, il grande poeta rivelava di conoscere i nomi dei mandanti delle stragi di Stato. “Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) ed una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974)”.
C’è stato un periodo nel quale Bettino Craxi, nel pieno del suo potere, usò la metafora del Grande Vecchio per racchiudere quella intelligenza raffinata, per usare l’espressione di Giovanni Falcone, che ha spesso condizionato il corso della Repubblica. Le radici di tutto questo stanno in quell’aereo precipitato nel cielo della periferia di Milano, la sera del 27 ottobre 1962, mentre si svolgeva nel mondo il grande dramma della crisi dei missili a Cuba.