La città portuale di Kherson, nel sud dell’Ucraina, è stata la prima grande città del paese ad essere conquistata dalle forze di Vladimir Putin, il 3 marzo, una settimana dopo l’inizio dell’invasione. Ad otto mesi da quel passaggio bellico, i russi si stanno ritirando da quell’avamposto, che era considerato strategico come corridoio militare per poter puntare su Odessa.
Controllare Kherson significa controllare anche un’importante fonte d’acqua dolce. Nel 2014 l’Ucraina ha bloccato il canale della Crimea settentrionale con una barriera di cemento, dopo che la Russia si era impadronita della penisola e ne aveva rivendicato l’annessione.
Da allora, la maggior parte dell’approvvigionamento idrico nella regione era stato interrotto e dipendeva esclusivamente dal Cremlino. Uno dei primi obiettivi di Putin era ripristinarlo. Nei primi giorni dell’invasione, il 26 febbraio, i militari russi hanno fatto saltare la diga. Un atto anche molto simbolico.
La città a sud dell’Ucraina ospita 300mila persone, ha un importante porto ed un grande cantiere navale. Kherson è una città chiave, una base strategica per addentrarsi sia verso l’entroterra ucraino oppure (o anche) a ovest, lungo la costa, fino all’altra grande città portuale di Odessa. Si trova infatti appena sopra la penisola della Crimea, sul Mar Nero, alla foce del fiume Dnepr, che taglia in due l’Ucraina.
Nella fase della presa di Kherson, all’inizio della guerra, la strategia della operazione militare speciale di Vladimir Putin non si limitava alla conquista delle Repubbliche del Donbass, per difendere le minoranze russe vessate dal regime di Kiev. In quei giorni una lunga coda di carri armati russi puntava dritta verso Kiev, e le incursioni missilistiche procedevano a bombardare a tappeto le principali città dell’Ucraina.
Poi è accaduto ciò che non era stato previsto dai russi: prima la resistenza compatta dei cittadini ucraini dopo l’invasione e poi la solidarietà occidentale che ha consentito, con l’invio di armi ed il robusto supporto economico, di equilibrare le forze in campo.
Con un colpo mediatico a sorpresa i russi hanno annunciato il ritiro da Kherson in diretta televisiva, alla presenza dei massimi vertici militari. Mancava solo Vladimir Putin, non casualmente: il leader non potrebbe essere mai associato ad una sconfitta. Sergei Shoigu, ministro della Difesa della Federazione Russa, ha dato ordine all’esercito di ritirarsi dalla città di Kherson, occupata da inizio di marzo, e stabilire una nuova linea di difesa sulla riva orientale del fiume Dnipro. Se confermata, si tratterebbe di una delle più grosse ritirate della Russia e un possibile punto di svolta della guerra.
Il generale Sergei Surovikin, comandante di tutta quella che il Cremlino chiama “operazione speciale”, ha riferito a Shoigu, ripreso dalla televisione di stato, che non era più possibile inviare rifornimenti sulla sponda occidentale del fiume: “Comprendo che sia una decisione difficile, ma allo stesso tempo così facendo preserviamo ciò che è più importante, la vita dei nostri soldati e, in generale, l’efficacia dell’esercito, che sarebbe futile concentrare in un’area limitata della sponda occidentale”.
Shoigu ha risposto di essere d’accordo: “Per noi la vita dei soldati russi è sempre una priorità, e dobbiamo anche tenere in considerazione la minaccia alla popolazione civile. Si proceda al ritiro e si prendano tutte le misure necessarie per trasportare in sicurezza personale, armi e mezzi oltre il fiume”.
Ma questo passaggio non è solo militare, è soprattutto politico. Kherson è infatti la capitale della regione omonima, una delle quattro di cui Vladimir Putin ha proclamato l’annessione a settembre, affermando che sarebbero rimaste russe “per sempre” e protette dall’ombrello nucleare di Mosca. Le stime dell’estensione di territorio finora occupato a ovest del fiume Dnipro variano tra i 3700 e i 4300 metri quadri.
L’Ucraina, secondo quanto ha affermato il presidente Volodymyr Zelensky, si sta muovendo «con molta attenzione» dopo l’annuncio della Russia del ritiro dalla città di Kherson, nel sud dell’Ucraina. «Il nemico non ci fa regali, non fa gesti di buona volontà», ha detto Zelensky nel suo discorso quotidiano. «Pertanto, ci muoviamo con molta attenzione, senza emozioni, senza rischi inutili, nell’interesse di liberare tutta la nostra terra e in modo che le perdite siano il più ridotte possibile».
D’altra parte, il consigliere di Zelensky, Mykhaylo Podolyak, ha inizialmente dichiarato che Kiev non vede «alcun segno» che le forze russe si stiano ritirando dalla città meridionale di Kherson. «Non vediamo alcun segno che la Russia stia lasciando Kherson senza combattere», ha scritto Podolyak su Twitter, suggerendo che l’annuncio potrebbe essere una manovra e definendo l’ordine del ministro della Difesa Shoigu una «dichiarazione televisiva inscenata».
Pololyak ha poi stamane dichiarato che i russi stanno minando la città di Kherson e stanno facendo saltare in aria i ponti, mentre procedono al ritiro. Lo stesso Zelensky, in un’intervista alla CNN, ha evidenziato come l’annuncio della Russia possa essere solo una mossa strategica per riorganizzare le forze. Presto, ha tuttavia sottolineato, «arriveranno progressi ucraini sul campo di battaglia».
Il capo di Stato maggiore statunitense, il generale Mark Milley, ha intanto fatto sapere che – secondo le stime di Washington – più di 100.000 soldati russi sono stati uccisi o feriti dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. «Si contano oltre 100.000 soldati russi uccisi e feriti», ha detto Milley parlando al New York Economic Club. «Lo stesso probabilmente dalla parte ucraina», ha aggiunto il generale USA.
L’alto funzionario militare americano ha detto anche di sperare che i colloqui possano mettere fine alla guerra, poiché secondo lui la vittoria militare potrebbe non essere possibile né per la Russia né per l’Ucraina. «Deve esserci un riconoscimento reciproco del fatto che la vittoria nel senso proprio della parola probabilmente non è ottenibile con mezzi militari e quindi bisogna guardare ad altri metodi», ha spiegato Milley. Secondo lui c’è «una finestra di opportunità per la negoziazione».
Questo è il punto fondamentale sul quale concentrare l’attenzione in tale momento. L’Ucraina sinora non poteva prendere nemmeno in considerazione una ipotesi di negoziato, soprattutto dopo il referendum di settembre scorso, nel quale le Repubbliche del Donbass erano state annesse alla sovranità russa mentre erano ancora in corso le operazioni militari.
Ora, la riconquista di Kherson può cambiare le carte in tavola. L’invasore russo registra uno smacco che lo costringe ad abbandonare una città che aveva promesso di difendere con tutti i mezzi, compresi quelle nucleari. Si apre forse uno spiraglio per la negoziazione, anche per tornare a ragionare, durante colloqui di pace, sulle forme di autonomia amministrativa delle Repubbliche del Donbass, senza dover dare per scontata l’annessione alla Russia.
Il crinale di questo passaggio si divide tra opportunità di negoziato, con l’avvio di un tavolo di pace tra i contendenti, e ripresa ancora più intensa della guerra, con il rischio che si allarghi il conflitto anche ad altre nazioni. L’interesse prevalente delle opinioni pubbliche occidentali milita verso la pace. Non la pensano così le forze economiche dell’industria bellica, da entrambe le parti della barricata. Chi vuole spendersi per la pace deve ora intensificare tutte le iniziative possibili. Per la prima volta dall’inizio della guerra uno spiraglio verso la pace si è aperto, pur se rischia di chiudersi rapidamente,
Il New York Times, nel frattempo, ha anticipato la notizia che una delegazione di parlamentari ucraini sta organizzando un viaggio a Washington in dicembre per discutere degli aiuti contro l’invasione russa e avere garanzie di uno sforzo bipartisan per la loro prosecuzione, dopo le elezioni di Midterm. «Capiamo una cosa: il pericolo che vediamo dalle cosiddette ali radicali di entrambi i partiti, i repubblicani di estrema destra e i democratici di estrema sinistra. Possono cominciare un dibattito sul blocco degli aiuti all’Ucraina», ha spiegato il deputato Volodymyr Ariev, uno dei parlamentari che promuovono il viaggio.