Conosciamo Titti Marrone per essere stata, per molti anni, la responsabile delle pagine culturali del Mattino. Ma è anche scrittrice, autrice, fra l’altro, di un testo che per la narrativa concorre al premio Napoli 2022: Se solo il mio cuore fosse pietra. In esso lo sguardo di giornalista si sintetizza con quello della storica per l’attenzione alle fonti, soprattutto materiale d’archivio, foto, diari, lettere. Stiamo parlando di un’opera che racconta il dopo Shoah, una tragedia che ovviamente non si concluse con l’ingresso dei russi ad Auschwitz ma che portò con sé un’onda lunga di sofferenza. Basti pensare al romanzo del ritorno di Primo Levi, La tregua, per capire di cosa stiamo parlando. Qui la narrazione si incentra, appunto, su un’esperienza del dopo. Venticinque bambini tra i quattro e i quindici anni, salvati dai lager o dalla reclusione forzata in soffitte dove erano stati nascosti o vissuti in orfanotrofi cattolici per sfuggire alla loro identità, vengono accolti, nel 1945, nella villa di campagna di sir Benjamin Drage, a Lingfield, in Inghilterra. L’equipe di donne costituita da psichiatre e assistenti, guidate da Anna Freud, figlia di Sigmund, e da Alice Goldberg, sua collaboratrice, tenteranno di curare in questi piccoli la repulsione verso l’umano, cresciuta con loro nelle atroci condizioni in cui erano stati costretti a vivere. I tentativi di recupero sono a volte improvvisati, visto che non esisteva scienza in tal senso. Tuttavia essi erano guidati sempre dall’amore e dalla compassione che consentivano alle operatrici, pur se tra molti dubbi, di trovare soluzioni talvolta fantasiose ma utili a risolvere una difficoltà, magari sorta all’improvviso ed inaspettata. Se nella ricostruzione dei sentimenti dei protagonisti, adulti e bambini, la Marrone porta tutta la sua sensibilità umana, nel raccontare la vicenda dei piccoli lo sguardo storico ci comunica, impietoso, quanto accadeva in quegli anni, denunciando il nazismo già solo con la cruda narrazione delle sofferenze subite da quei bambini. Particolarmente doloroso nel percorso di riadattamento il momento, una volta recuperate le forze fisiche, di far riaffiorare i traumi subiti, per superarli. Non per tutti sarà possibile: alcuni rimarranno per sempre legati a quel tragico passato che impedirà loro di vivere una seconda vita. Altri saranno adottati, ritroveranno i parenti, in un caso addirittura i genitori come avviene per Tatiana e Andra Bucci, cugine di Sergio De Simone, il piccolo napoletano vittima degli esperimenti di Mengele, ritrovate grazie ad una rete di ricerche lanciata in modo fortuito da Napoli.
Un racconto che colpisce al cuore, che non ha sempre un lieto fine pur essendoci tutti i presupposti, visto che questi bambini si potevano considerare fortunati tra gli infelici scomparsi, come Sergio De Simone, simbolo di tutti coloro che da lì non fecero più ritorno.
L’alternarsi delle storie dei piccoli ospiti e delle riflessioni di Alice si può rappresenta come un grafico ondulatorio dove alle punte estreme di sofferenza fa da contrappeso, abbassando la tensione, la valutazione clinica e psicologica che le operatrici ci offrono invitandoci a leggere in modo meno passionale ma non per questo meno doloroso tanto incomprensibile dolore.
Stile asciutto e preciso, direi cronachistico, in cui non c’è bisogno di sottolineare gli eventi che già di per sé si imprimono per la loro natura nella nostra anima.
«Coltivare la memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare». Liliana Segre.