Il Comune di Roma ha completato di recente l’iter di affidamento all’arch. Boeri dell’incarico di “coadiuvare l’Amministrazione nella costruzione di un grande piano di rigenerazione urbana coerente con i bisogni dei cittadini e all’insegna della transizione ecologica e dell’inclusione sociale”.
La scelta è stata oggetto di molte critiche a partire da quelle di altri architetti appartenenti all’esclusivo club delle “archistar”, ma di quelle argomentazioni non da conto parlare specie se propongono paragoni privi di senso con il progetto di una città lineare lunga 180 chilometri, larga duecento metri, altezza cinquecento metri che si sta realizzando in Arabia Saudita.
Significativa è, invece, la presa di posizione dell’Ordine degli Architetti di Roma che ha posto una questione di metodo: per quale motivo, ha chiesto il Presidente Paci, è stata scelta la strada dell’incarico diretto anziché ricorrere a bandi di gara o manifestazioni di interesse? “Questa delibera recupera prassi anacronistiche e all’insegna della mancata trasparenza e a favore dei soliti noti“.
Condivido pienamente questa argomentazione, ma voglio sottolineare che la procedura adottata rientra pienamente nei poteri dell’Amministrazione comunale che, quindi, non ha preso una decisione illegittima ma una decisione sbagliata.
Dico questo perché ritengo che il vero nodo della questione non sia quello del metodo adottato, bensì quello del merito visto che stiamo parlando di urbanistica e, in particolare, di rigenerazione urbana e, dunque, prima di prendere una qualsiasi decisione in merito bisognerebbe sapere esattamente di cosa si parla.
Ebbene non sono affatto sicuro che il Comune di Roma lo sappia se parte affidando l’incarico ad un architetto che propone (lui non il Comune) l’attivazione di un “Laboratorio Roma 050 – Il futuro della metropoli mondo” di cui faranno parte 35 giovani progettisti e 2 architetti senior, affiancato da un Comitato di Garanti composto da 4 figure internazionali provenienti da diversi campi scientifici e disciplinari, il tutto selezionato, diretto e coordinato dall’arch. Boeri.
Come si desume da vari documenti e dichiarazioni, il laboratorio proporrà una visione per la città che andrà da un piano di recupero per le zone disagiate, ai trasporti, alla mobilità sostenibile, alla valorizzazione del verde, senza trascurare il riferimento alla “città dei 15 minuti” e guardando al modello della Garbatella.
Sembra che non manchi proprio nulla.
Ma è proprio per questo che ci dobbiamo porre un interrogativo: siamo sicuri che l’arch. Boeri sappia che cosa è la rigenerazione urbana e sia in grado di applicarla ad un contesto urbano di enorme complessità come la città di Roma?
Perché di questo stiamo parlando, vale a dire di un passaggio cruciale per cambiare il modo di fare urbanistica a Roma, che dal suo divenire Capitale d’Italia ad oggi è stato sempre asservito al connubio di interessi tra rendita fondiaria, speculazione edilizia e capitale finanziario, ossia l’oligopolio collusivo di cui parlava Campos Venuti.
In realtà il Comune sembra convinto di aver fatto la scelta giusta visto che scrive che l’incarico è stato affidato ad un “esperto di chiara professionalità e competenza nei settori della pianificazione urbana sostenibile e della rigenerazione urbana”, ma se guardo alla produzione progettuale di Boeri mi chiedo da dove discenda questo convincimento.
Come noto Boeri è un architetto, quindi progetta architetture (sulla cui qualità lascio ad altri di esprimersi) e forse è eccessivo chiedergli di saper pianificare una città come Roma secondo i criteri, i metodi e le tecniche di una urbanistica orientata alla rigenerazione urbana, il che richiede il rispetto di alcune precise condizioni: il ruolo guida da parte dell’amministrazione comunale; la formulazione di una strategia di intervento; l’elaborazione di un Master Plan; la programmazione delle risorse finanziarie; l’individuazione di uno o più soggetti attuatori; la raccolta di un parco progetti tramite procedure selettive; il coinvolgimento attivo delle componenti scientifiche, culturali, professionali, imprenditoriali e sociali.
Tutte cose di cui non si vede traccia.
Allora l’invito a chi si occupa di governare questi processi (compreso il conferimento degli incarichi professionali) è di studiare attentamente con quali strategie urbane, quali piani, quali referenti, quali modalità, quali tempi, quali risorse sono state avviate e portate a termine le numerose esperienze di successo in questo campo: a Glasgow e Liverpool, in Gran Bretagna; a Freiburg, Amburgo e nella Ruhr in Germania; a Parigi e Marsiglia in Francia; a Bilbao e Barcellona in Spagna, per citare solo alcuni dei casi più eclatanti.
Basterebbe qualche viaggio e brevi periodi di studio per capire come si fa ed evitare errori clamorosi, come quello di affidare (senza gara) “un grande piano di rigenerazione urbana” di una città come Roma nelle mani di un architetto e del suo novello laboratorio.
Post Scriptum
In ogni caso, se un Comune vuole avviare una vera politica di rigenerazione urbana deve partire da un elemento indispensabile, vale a dire la conoscenza delle caratteristiche quali-quantitative degli oggetti urbani dismessi presenti nel suo territorio: ubicazione, tipologia, dimensioni, stato di conservazione, vincoli esistenti, proprietà e via dicendo.
Ciò significa avviare un censimento che consenta di costruire una banca dati di quel patrimonio, sulla falsariga di quanto prevede anche il DDL “Misure per la rigenerazione urbana” in discussione in Parlamento. Senza una simile banca dati – da aggiornare periodicamente – si può solo navigare a vista, come purtroppo sembra stia accadendo.