Un amico che, bontà sua, mi segue su queste colonne, avendo letto il mio primo pezzo della serie sulla narrativa russa della guerra (La narrativa russa della guerra 1: l’Ucraina non è una nazione – Gente e Territorio ) in cui, in premessa, enucleavo sette argomenti a giustificazione dell’invasione dell’Ucraina, così come rinvenibili nella propaganda russa ed in quella filorussa, mi ha segnalato che ce n’è un ottavo, da me non considerato: l’obiettivo cioè di Putin di scongiurare un governo gay a Kiev e di ‘purificare’ così il popolo ucraino, salvandolo dalla depravazione morale dell’Occidente. Il leader del Cremlino è sollecitato a ciò dal suo novello Rasputin, l’ideologo della supremazia della civiltà euroasiatica, Aleksandr Gel’evič Dugin, e dal patriarca Kirill I. In verità tenevo presente questa ‘giustificazione’ dell’invasione russa, ma la collocavo nella sfera torbida della psicopatologia politica e pertanto, errando, non le avevo dato peso.
Quella della restaurazione dei valori identitari della Santa Madre Russia, comuni a Grande Russia, alla Bielorussia e alla Piccola Russia, cioè all’Ucraina, se non fa molta presa nell’Occidente, salvo che in settori teocon – lo ricordate Matteo Salvini che passava dalle ragazzette del Papeete Beach ai comizi nelle piazze con la croce sul petto ed il rosario tra le dita, inveendo contro papa Bergoglio, complice della decadenza morale indotta dalla globalizzazione? – trova tuttavia una collocazione di rilievo nel racconto della guerra che arriva ai cuori ed alle menti della profonda Russia eurasiatica. Il sillogismo è questo: la globalizzazione è la fase suprema dell’imperialismo USA, essa assimila ed omologa tutte le identità locali in un’unica cultura mondiale secolarizzata, il cui unico valore sono i soldi ed il profitto; contro questa standardizzazione soggiogatrice dei popoli, l’unica possibile resistenza è quella del recupero e della difesa delle proprie identità tradizionali, a cominciare da quelle religiose; l’operazione militare speciale in Ucraina è dunque parte della resistenza identitaria mondiale alla globalizzazione.
Dicevo poco sopra di una forma di psicopatologia politica, difatti non è che non vi siano tratti paranoidi in questo ragionamento. Eppure esso, com’è proprio di tutte le paranoie, ha una sua logica lineare. Se ne accetti la premessa, non puoi sfuggire alle sue conclusioni.
Ma veniamo finalmente al termine di questo nostro viaggio nella narrazione russa della guerra.
L’11 luglio scorso un gruppo di pacifisti italiani aderenti al Project Mean (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta – Project Mean – Movimento Europeo di Azione NonViolenta (perunnuovowelfare.it)), recatisi a Kiev in missione di pace, vi ha incontrato un’ampia delegazione di autorità e di rappresentanti della società civile ucraina. Insieme hanno ragionato su una possibile via per uscire dal conflitto. Riporto qui di seguito due estratti dal report che ne ha tratto Marianella Sclavi, un’operatrice che, sulla scia di Alex Langer, da quarant’anni in qua si occupa di GCC (Gestione Creativa dei Conflitti):
“Parlando con i nostri interlocutori ucraini, ascoltando le loro esperienze di quel che è successo nel loro paese e quel che sta succedendo, mi ha molto colpito che noi vediamo la loro difesa armata come una risposta alla aggressione russa, mentre loro la vedono come una lotta in difesa della libertà contro un tentativo arrogante e feroce di sottomissione. Ed è per questo che ogni suggerimento di deporre le armi li ferisce, li fa stare veramente male. Li offende”.
È esattamente quello che, nel nostro piccolo, abbiamo sostenuto anche noi su queste pagine. Non è in corso alcuna guerra per procura, in cui degli incapaci di intendere e volere, plagiati dall’ideologia globalista – dalle ‘plutocrazie anglosassoni’ avrebbero detto Hitler e Mussolini – si fanno ammazzare per nome e per conto della NATO o di un qualche diabolico Gruppo Bilderberg. C’è invece un popolo che sta difendendo con le unghie e con i denti la propria libertà e che è riuscito a stanare il titubante Occidente, inducendolo a sostenerlo con soldi, armi e intelligence. Un aiuto, quest’ultimo, ovviamente non del tutto disinteressato.
E allora, se questo è come di fatto è, cosa si può fare per la pace? C’è una via? E soprattutto chi può percorrerla? La Sclavi ci dice che, nel meeting di Kiev, si sono individuati tre possibili scenari. Sorvoliamo sul secondo e cominciamo dal terzo, perché ci pare introduttivo al primo scenario da lei indicato, quello che a suo ed a nostro avviso è da perseguire:
“Il terzo scenario è quello dei politici realisti, intendendo per ‘realisti’ coloro che si rivolgono alla Europa e all’Onu come se esistessero davvero, quando hanno ampiamente dimostrato di non esistere. Sia l’attuale dibattito a livello diplomatico/politico nelle alte sfere (vedi per es. The Munk debate, Toronto 12.05.2022) che i temi e slogan di Europe for Peace con la loro recente mobilitazione in molte città italiane, si collocano totalmente dentro i parametri dati. ‘La guerra va fermata subito e va trovata una soluzione negoziale’ con una ‘conferenza internazionale di pace per ricostruire le condizioni di una sicurezza comune e condivisa in Europa’. Sono affermazioni che assumono che la soluzione ci sarebbe, manca la volontà, mancano i rapporti di forza per imporla. Mentre in realtà mancano i soggetti, vanno costruiti gli attori…”.
Ed allora veniamo al primo scenario sul quale vale la pena di impegnarci:
“Il primo scenario è la posizione di chi riconosce che questo non è un popolo che sta chiedendo col cappello in mano di poter fare il suo ingresso nella casa dei padroni della democrazia europea dalla porta di servizio. È il popolo sulla cui pelle si è consumato l’assenza e il fallimento della democrazia europea. È il popolo che con la sua resistenza ci sta offrendo l’opportunità di riprendere un cammino colpevolmente abbandonato: quello di costruire i presupposti per una Europa più forte, autonoma e autorevole in un mondo globalizzato. Una Europa non più dei singoli stati, ma dei cittadini, quegli Stati Uniti d’Europa in grado di svolgere il ruolo di costruttrice di pace sia al proprio interno che nelle relazioni internazionali, nei rapporti con gli altri continenti. È a Kiev e non a Bruxelles che si sta scrivendo un nuovo capitolo nella storia della costruzione della democrazia europea”.
Non c’è altro da aggiungere!