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La cura del quartiere

by Ivan Battista
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Homo locum ornat, non hominem locus.
(È l’uomo che nobilita il luogo, non il luogo l’uomo)
Flavio Sosipatro Carisio (IV secolo, Ars grammatica, 287, 15k)

 

La parola quartiere è di antica derivazione romana e stava a significare il quarto dell’insediamento del castrum diviso dal cardo e dal decumano: due direttrici tracciate sul terreno, una ortogonale all’altra, che producevano una croce. Per
estensione, il termine è giunto a significare un dato settore di una città. Negli “spicchi” di città nei quali viviamo, spesso siamo soggetti all’incuria e alla trascuratezza delle amministrazioni che dovrebbero manutenerli.

Con la frase del grammatico Flavio Sosipatro Carisio, posta come didascalia al titolo di questo articolo, ho intenzione di mettere l’accento su quanto l’essere umano possa fare per nobilitare e rendere felice il luogo in cui vive. Soprattutto a livello inconscio, siamo pervasi dai luoghi in cui viviamo e che frequentiamo. Sono essi ad entrare nelle nostre vite, con le loro atmosfere, i colori, le volumetrie architettoniche e le disposizioni urbanistiche. Purtroppo, molte delle belle città
italiane sono state orribilmente sfigurate da interventi urbanistico/architettonici che definire orribili sarebbe un eufemismo.

È l’essere umano che fa bello il luogo. Questa affermazione ci costringe alla presa di coscienza che è il nostro amore per l’armonia, per la proporzione, per l’accessibilità, per la funzionalità, per la pulizia dei nostri ambienti esterni a fare la differenza tra un luogo trascurato e deprimente e un posto piacevole che predispone la psiche ad un
buon umore, possibile preludio alla felicità.

Nelle contemporanee grandi città del cosiddetto mondo occidentale, tutti siamo alla caccia di un gradevole posto dove poter svolgere la nostra quotidianità. Purtroppo, è una ricerca quasi disperata perché l’amore per il bello, soprattutto in urbanistica, sembra essere stato latitante per troppo tempo nelle nostre metropoli. Una economia di marcato stampo classista (ai ricchi i posti migliori perché se li possono pagare, ai poveri i posti peggiori senza alcun rispetto) ha agevolato lo scempio architettonico/urbanistico che andrebbe recuperato non foss’altro che per dignità umana.

Allora, il riprogettare, il rigenerare, il prendersi cura di un insediamento urbano, di un palazzo, di un quadrante o di un intero quartiere di una città, oltre che un’opera meritevole, è una necessità vitale. Un magnum opus che richiede presa di coscienza, cultura pervasiva e buona educazione al decoro cittadino. Le grandi metropoli moderne sono sporche perché difficile è la risoluzione del problema dei rifiuti e della spazzatura. Una città sporca è una città invereconda e, in accordo con la didascalia di Flavio Sosipatro Carisio, lo è perché è l’Uomo che, in prima battuta, nobilita o degrada il luogo, non il contrario.

È chiaro che un ambito naturale o urbano sia per cause dipendenti dalla Natura magnifica sia per l’operato eccellente dell’Essere umano può, di conseguenza, nobilitare l’Uomo. Però, nella pratica della vita, sono le nostre scelte, i nostri
comportamenti, la nostra educazione, il nostro rispetto, la nostra consapevolezza ad essere determinanti. Insudiciare le pertinenze esterne alle nostre abitazioni oltre che un gesto incivile è un atto di autolesionismo. Le grandi epidemie medievali, il colera a Napoli in tempi recenti, le tante malattie che sfuggono alla registrazione delle Istituzioni sono state procurate e sono cause di stati di malessere fisico e psichico. La salute, secondo l’OMS, non va dimenticato, è una condizione di benessere psicofisico. Quindi, non raccogliere le deiezioni del proprio cane, gettare i mozziconi di sigaretta per strada, abbandonare rifiuti d’ogni genere, dal sacchetto delle patatine vuoto alla vaschetta del gelato al pacchetto di sigarette accartocciato al materasso buttato sul marciapiede, oltre ad un pericolo biologico è un oltraggio alla psiche collettiva. Ciò che appartiene a tutti non vuol dire con non appartiene a nessuno. Ciò che appartiene a tutti appartiene anche al singolo individuo ed è per questo che è giusto che ognuno se ne prenda cura.

Ormai, la mala educazione impera e contrastarla con la cultura del civile e del decoro è una lotta ardua. La voglia di fuggire dalle metropoli, prede dell’ignoranza e dell’incivismo, è arrivata a livelli preoccupanti. La stessa Roma, capitale d’Italia, sta
subendo uno svuotamento (300.000 residenti fuoriusciti negli ultimi 3 anni). Chi può fugge e va a vivere in posti meno potenzialmente patogeni sia in senso fisico sia in senso psichico. Non è una tendenza soltanto moderna. Sotto l’impero di Augusto, non tutti gradivano di vivere nella metropoli romana. Il caos e la frenesia della caput mundi era dovuta alla presenza, sul suo territorio, di oltre un milione di abitanti e le strutture, seppur valide, non erano certo quelle che possiamo annoverare nelle nostre moderne megalopoli. Il numero degli abitanti della Roma augustea (per 4/5 stranieri) lo evinciamo dalle scritte sulle fiancate dell’Ara pacis ancora ben leggibili. Un esempio emblematico del rifiuto della vita convulsa di Roma antica è quello del poeta latino Orazio.

Nel 32 a.c., Quinto Orazio Flacco, letterato e personalità sorniona nonché saggia di scuola epicurea, accettò di buon grado il dono del suo “ministro della cultura” e amico Mecenate: un piccolo appezzamento in Sabina. Orazio, il poeta del carpe
diem, non amava vivere in città e gioì quando poté trasferirsi nella sua villa le cui rovine sono ancora oggi visitabili nei pressi della cittadina di Licenza in provincia di Roma. Hille terrarum mihi praeter omnes/angulus ridet. (Orazio, Odi, 2,6,13 s.). Questa frase, tratta dalle sue Odi, si riferisce alla terra di Taranto che il poeta latino glorifica per il clima, l’olio, il miele, il vino etc., ma può benissimo adattarsi anche alla casa che si fece costruire tra le odierne Mandela e Vicovaro. Un appezzamento di circa 40 ettari in cui è ancor oggi presente una sorgente (Fonte degli oratini o Fonte bello) di acqua limpida e fresca (che forse richiamava alla mente del grande letterato lucano la Fons Bandusiae di Venosa, cfr. Ode 13a libro terzo)). Lo spazio terriero sabino annoverava un bosco, oliveti, frutteti e terra da pascolo. L’ambiente in cui Orazio viveva nella villa di Licenza era composto da un largo quadriportico rettangolare con un giardino centrale, ad un solo piano, con le stanze sistemate intorno all’atrio e un piccolo balneum (parvum sed aptum mihi, avrebbe esclamato Orazio). Una disposizione dei volumi di classica impostazione romana che ci ricorda la villa dei Papiri di Ercolano. Nulla di eclatante e sfarzoso per l’epoca e in piena filosofia oraziana che preferiva la sostanziale calma della vita agreste alla perenne e
spesso vana agitazione della Roma augustea. Non c’è dubbio che questo territorio abbia influenzato anche lo stile letterario oltre che lo stile di vita del poeta latino.

Il territorio, col suo stato d’essere, con le condizioni che ci impone, con i ritmi che ci comanda ci fa liberi o schiavi. Una città felice, un quartiere felice possono trasmetterci quel senso di appagamento che, invece, posti disgraziati (proprio nel
significato di senza grazia) possono sottrarci. La risposta al degrado civico non può che essere l’impegno e la consapevolezza. L’impegno per arginare l’incuria delle pertinenze esterne e pubbliche abbandonate in molti casi a se stesse, la consapevolezza per comprendere che il rispetto che si ha per il nostro microcosmo cittadino è il rispetto che dobbiamo agli altri. Gli altri siamo noi e, se non li rispettiamo, vuol dire che non rispettiamo noi stessi. Un grave problema di stima e
considerazione rivolto alla nostra persona che va risolto non solo per il nostro bene, ma per il bene collettivo. Il quartiere è un organismo vivo e ci ritornerà ciò che noi gli daremo, nel bene e soprattutto nel male.