Prima che la Russia ci costringesse ad occuparci solo della dissennata guerra di aggressione all’Ucraina, potevamo leggere dell’ammirazione e del grande amore che gli intellettuali russi avevano per alcune grandi città italiane. Se ne trova un’ampia e accurata rassegna nei quattro volumi della Collana “I Russi in Italia”, pubblicati nel 2005 da Sandro Teti Editore per la cura di Valerij Sirovskij.
I volumi hanno tutti una titolatura analoga: Firenze Russa, Venezia Russa, Napoli Russa, Roma Russa. L’autore è Aleksej Kara-Murza, politologo che dirige l’Istituto di Filosofia della Politica dell’Università statale Lomonosov di Mosca, considerato tra i maggiori esperti russi di questioni europee.
Polis si propone di presentarli tutti a partire da quello su Roma, che si apre con una pregevole introduzione della slavista Rita Giuliani titolata “La Russia e Roma: ovvero la Sindrome romana della cultura russa”, da cui possiamo trarre un quadro d’insieme del volume a partire da un aneddoto che la Giuliani racconta in apertura.
Trovandosi su un autobus a Pietroburgo e avendo chiesto permesso in lingua russa con evidente accento straniero, si sentì chiedere da una signora di quale città fosse e alla risposta “di Roma” seguì l’esclamazione “ma allora Roma esiste davvero!” Un segnale inequivocabile di un rapporto millenario più che con una città con un mito, un simbolo, una storica stratificazione di mondi che traspare già dal toponimo russo Rim che, al pari di Roma-Amor, è un palindromo: Rim-Mir con Mir che vuol dire mondo.
Dunque gli intellettuali russi guardano a Roma come ad un mondo che è appartenuto ad un passato ormai lontano, ma i cui segni materiali e immateriali lasciati costringono ancora “a confrontarsi con la cultura classica, con il diritto romano, con l’idea di Impero, con il primato della Chiesa di Roma, sempre fieramente negato dalla Chiesa ortodossa”.
Dalla “sindrome romana” era stato colpito profondamente lo zar Pietro il Grande considerato l’artefice della “grande occidentalizzazione” della Russia, modellata sulla Roma imperiale già nella nuova capitale – Pietroburgo, la città di Pietro, fondata nel 1703 – la cui Cattedrale fu intitolata agli apostoli Pietro e Paolo e venne consacrata il 29 giugno, nel giorno della festività dei due santi che a Roma si celebra tuttora.
Con questo retroterra culturale gli intellettuali russi – pittori, scrittori, musicisti, attori, giornalisti – a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento per arrivare a fine Novecento avviano il loro Grand Tour in Italia che li porta inevitabilmente a Roma.
L’Autore presenta ventidue di questi personaggi, dedicando loro brevi cenni biografici salvo che per quattro – Orest Kiprenskij, Nijolaj Gogol’, Pëtr Ciajkovskij, Iosif Brodskij, vere celebrità a livello internazionale – ai cui soggiorni romani dedica lunghe e dettagliate descrizioni.
Quello che emerge è che il rapporto con Roma non riguarda solamente le vestigia del mondo imperiale romano e le grandiose testimonianze delle epoche rinascimentale, barocca, fino a quella moderna, ma anche la vita quotidiana che vivono in prima persona frequentando i prestigiosi “salotti russi”, come quello della Principessa Zinaida Volkonskaja, ma anche passeggiando nei vicoli e frequentando trattorie popolari, di cui mostrano di gradire particolarmente la cucina e il vino.
Orest A. Kiprenskij, il “Van Dick russo”, al suo primo impatto con Roma nel 1816 esprime un giudizio molto critico, ma poi diventa quasi un cittadino romano, al punto che anni dopo, nel 1822, scrive da Parigi: “accetterei di percepire dodicimila di reddito annuo e di vivere a Roma, piuttosto che percepire due milioni di stipendio e dover vivere a Parigi”.
Il suo studio a Roma diventa il punto di riferimento per gli altri pittori russi che arrivano in città; lì dipinge alcune delle opere più famose, tra cui il ritratto di Thorvaldsen; a Roma muore nell’ottobre del 1936 e viene sepolto nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, dove una lapide lo ricorda ancora oggi.
Nijolaj V. Gogol’, uno dei più grandi scrittori russi, arriva a Roma nel marzo del 1837 dove torna a più riprese fino al 1847 e dove scrive per la gran parte la straordinaria epopea delle “Anime morte”.
Il suo rapporto con la città e, più in generale, con l’Italia è di grande empatia come appare da una lettera inviata al suo amico Danielevkij: “Di Roma ti innamori molto lentamente, un po’ per volta, però per tutta la vita. In breve, l’Europa è fatta per essere visitata, ma l’Italia è fatta per viverci”.
Alternava la scrittura con lunghe passeggiate in città, spesso con la sua amica Aleksandra Smirnova che diceva di lui: “nessuno conosceva Roma meglio di lui (…) non vi era storico italiano o cronachista che non avesse letto e scrittore latino che non conoscesse (…) conosceva tutto ciò che riguardava l’evoluzione storica dell’arte”. Non a caso molti anni dopo, nel 1910, lo scrittore Pavel Muratov scrive: “Gogol’ rivelò all’anima russa un nuovo sentimento: la sua parentela con Roma. Dopo di lui l’Italia cesserà di essere per noi una terra straniera”.
Pëtr I. Čajkovskij, tra i massimi compositori russi del periodo tardo-romantico, arriva a Roma per la prima volta nel 1874 e appena arrivato scrive al fratello Anatolij: “Ho vagato tutta la mattina per la città e ho visto opere d’importanza capitale: il Colosseo, le Terme di Caracalla, il Campidoglio, il Vaticano, il Pantheon e, infine, il vertice della creazione del genio umano, la Basilica di San Pietro e Paolo” (denominazione errata, ndr).
Ma per molto tempo Čajkovskij non ebbe un buon rapporto con Roma di cui lamentava spesso la sporcizia, la rumorosità, la mancanza di servizi postali, perfino il carnevale. Tuttavia, tornato nel 1879, lì compone il “Secondo concerto per pianoforte”, avvia la composizione del “Capriccio italiano” e scopre estasiato gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina. E’ conteso per l’esecuzione delle sue opere e anche se continua a dire “non riesco a superare l’indefinibile sensazione di antipatia che provo nei suoi confronti”, confessa infine: “Roma è così affascinante e la sento così vicina”.
Iosif A. Brodskij, nato a Leningrado nel 1940, scrittore e poeta esponente della scuola pietroburghese e allievo di Anna Achmatova, dissidente espulso dall’URSS nel 1972 e trasferitosi a New York dice di se di essere “viaggiatore, vittima della geografia” irresistibilmente attratto dall’Europa. Così lo presenta nel suo saggio Rita Giuliani che lo ricorda insignito nel 1987 del Premio Nobel per la Letteratura.
Arriva a Roma nel 1973 e dice di quel primo incontro: “Passeggiando per Roma non capivo assolutamente che mi stesse succedendo. Non conoscevo l’italiano, eppure mi sentivo molto più a casa di quanto non mi sentissi a Londra o negli Stati Uniti (…) La cosa mi sconcertava finché non mi venne in mente che le circostanze responsabili di questa sensazione erano le facciate, le statue, gli stucchi, ecc. Semplicemente, la lingua era tutto questo!”.
Risale ad un periodo successivo, il 1981, la composizione delle prime liriche romane – le “Elegie romane” e “Piazza Mattei” – alle quali seguono “Il busto di Tiberio” (1985), “In Via Giulia” (1987) e “Porta San Pancrazio” (1989).
A Roma torna per l’ultima volta nel 1995 e si impegna, senza successo, a realizzare il sogno cullato dalla cultura russa per due secoli di fondare “L’Accademia di Russia”.
Nella seconda parte del volume l’Autore fa raccontare a molti di loro le cose viste, le impressioni ricevute e le sensazioni provate, raggruppate in quadretti a tema da lui predisposti: Il primo incontro con Roma – Il sentimento di Roma – Ritorno a Roma – Foro versus Palatino – La campagna romana – Il carnevale romano – Roma tra passato e futuro – Addio a Roma.
Ne emerge una straordinaria miscellanea di racconti, impressioni, giudizi, ricordi, paragoni, partenze, ritorni, che dà la misura del rapporto che questi intellettuali hanno avuto con Roma, un rapporto non sempre facile, spesso controverso, ma sempre e comunque segnato da una fatale attrazione.