Nel luglio 1995 più di ottomila musulmani furono massacrati a Srebrenica, una piccola cittadina bosniaca, dalle milizie guidate da Ratko Mladić. L’orrore tornava nel cuore dell’Europa dopo le tragedie della Seconda guerra mondiale. Era il tempo del lungo assedio di Sarajevo, tra il 1992 ed il 1996, che causò più di 12.000 morti. La dissoluzione della ex-Jugoslavia aveva generato la rinascita dei nazionalismi precedentemente tacitati dalla leadership del Maresciallo Tito. Antichi fantasmi avevano dato la stura ad una crudeltà che gli europei ritenevano di aver messo definitivamente negli scaffali della storia.
A trenta anni di distanza dall’inizio dell’assedio a Sarajevo, l’invasione dell’Ucraina è il secondo atto della stessa tragedia, sul versante della instabilità orientale dell’Europa. Ancora una volta la barbarie si accanisce sulle popolazioni civili. A poco più di un mese dall’inizio del conflitto, le immagini del massacro di Bucha, un sobborgo a 40 km da Kiev, precipitano le coscienze collettive in uno stato di angoscia indicibile.
Tenere il conflitto limitato al teatro ucraino non sarà semplice. Sinora la risposta occidentale all’aggressione si è materializzata nelle sanzioni finanziarie, con l’obiettivo di indebolire il tessuto economico e militare russo. Le vicende si sono articolate secondo due piani che fino ad ora non si sono intersecati: da un lato l’hard power degli eventi bellici nel confronto tra ucraini, supportati dalle armi occidentali, e russi; dall’altro il soft power sospeso sugli effetti delle sanzioni, giocato sul filo sottile tra materie prime energetiche ed alimentari nelle mani dei russi e potere finanziario nelle mani dell’Occidente.
Mentre il volto crudele della guerra si dispiega in tutta la sua terribile dimensione, è probabile che ancora una volta saranno le sanzioni a segnare l’escalation del conflitto. Siamo all’ultimo stadio: dopo che Stati Uniti e Gran Bretagna hanno – già nelle settimane passate – rinunciato alle importazioni di petrolio e gas russo, adesso con ogni probabilità toccherà anche ai Paesi della Unione Europea. La Lituania lo ha già deciso, anticipando le altre nazioni. Dopo questa mossa non ne resteranno molte altre prima di determinare l’allargamento militare del conflitto su più larga scala. Singolarmente, questo processo di estensione del conflitto rischia di accadere proprio mentre le truppe russe stanno ripiegando dalla parte occidentale dell’Ucraina per far convergere e concentrare le forze militari sul teatro dell’Est e del Sud del Paese.
Tutti gli Europei cercano la pace e vogliono operare per un cessate il fuoco. Per poterlo ottenere sarebbe però necessario comprendere quale sia l’obiettivo con il quale Vladimir Putin ha avviato questa campagna di aggressione. Basta la protezione dei filorussi i cui aneliti di libertà sono stati conculcati nelle repubbliche del Donbass? O piuttosto vuol perseguire il controllo di una parte più estesa del territorio dell’Ucraina orientale e meridionale, compresi tutti gli accessi portuali al Mar Nero? O invece Putin punta alla conquista dell’intera Ucraina, compresa la capitale Kiev, per imporre un cambio di regime o per incorporare anche la nazione nel suo insieme all’interno della Russia?
Ogni trattativa, per poter essere coronata da successo, deve partire dalla conoscenza chiara e palese degli obiettivi delle parti in conflitto. Purtroppo, ancora non è chiaro il limite sino al quale si spinge l’aggressione russa. Il riposizionamento delle truppe russe ad oriente e nel sud, se fosse mirato a contenere gli obiettivi di questa campagna, potrebbe aprire uno spiraglio alla trattativa per un cessate il fuoco e poi per la pace.
Siamo quindi davanti ad un bivio: se è vero che Putin sta ripiegando verso obiettivi meno estensivi – vale a dire l’incorporazione della Crimea, uno statuto più autonomo per il Donbass, la neutralità dell’Ucraina – allora una negoziazione può riuscire a sbloccare la situazione.
Se invece Putin intende solo far prendere fiato alle proprie truppe per rilanciare l’iniziativa militare su larga scala, allora i rischi di un allargamento del conflitto sono destinati a crescere.