Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, di Aurelio Picca (Bompiani 2021), fa parte della terna di testi di narrativa che concorrono al premio Napoli 2021.
Il protagonista Alfredo Braschi, anziano e solo, vive del passato in un hotel con vista lago di Albano. I suoi ricordi sono legati a doppio filo al giovanile incontro casuale con il boss Laudovino De Sanctis, detto Lallo lo zoppo per una frattura alla gamba durante un’evasione da Regina Coeli, ma detto anche la Belva per la crudeltà dimostrata durante i frequenti rapimenti, sanguinosa scia che caratterizzò gli anni ‘70. Sette omicidi, quattro sequestri di persona, undici condanne definitive, due rocambolesche fughe dal carcere, insomma una bella carriera. Tuttavia questo criminale aveva verso il giovane Alfredo un atteggiamento paterno: cercava di tenerlo lontano dai momenti malavitosi più drammatici e pericolosi, di non farlo comparire tra gli esecutori dei piani criminosi. Insomma per il protagonista rivestirà il ruolo di quel padre che non ha mai conosciuto.
Il ricordo di Lallo segna anche il percorso attraverso i paesi dei Castelli Romani che Alfredo compie alla ricerca del violentatore della figlia Monique (chiamata come la figlia di Lallo), una ricerca sul filo dei ricordi e del confronto tra presente e passato. Un passato violento e crudele ma, agli occhi del protagonista, più vero e più sincero del conformismo attuale.
Per legare la storia creata con la realtà dei fatti (De Sanctis è realmente uno dei più efferati criminali di quegli anni), Picca riporta gli atti giudiziari dei processi che portarono Lallo in galera fino al 2014. Il tentativo risulta però piuttosto distraente dalla trama, ripetitivo e incapace di creare empatia. Tutto il racconto ruota intorno ad alcuni oggetti simbolici. La pistola nella cintura di Alfredo, sempre pronta a sparare nelle intenzioni ma senza averne la forza di volontà, rappresentazione simbolica di quella forza sessuale di un tempo ma che oggi è mortificata dall’età e dalle malattie. La Ninna nanna di sua figlia che ossessiona Alfredo, spingendolo a cercare vendetta. Il lago Albano, uno sputo nero attorno al quale il protagonista ha vissuto la sua giovinezza con il nonno allevatore di cavalli, mucche e di tori e che oggi sembra pronto ad esplodere ed a risucchiare tutto il presente.
Questo passato mitizzato in cui la criminalità rappresentava, nell’ottica del narratore, forse il meglio della vitalità di un popolo non ancora imbolsito dalla mercificazione, risulta a tratti insopportabile. Anche perché si lega a celebrazioni di performance sessuali descritte in tutta la loro crudezza e brutalità. Il lurido presente agli occhi di Alfredo si confronta con un tempo dove si viveva dentro uno scatto: fare o non fare. Non servivano troppi ragionamenti.
Non stiamo parlando di ragazzi di vita di pasoliniana memoria, adolescenti del sottoproletariato urbano che vivono di espedienti. Qui si rimpiange una malavita organizzata che ha insanguinato le strade della capitale e non solo. Davvero troppo. Senza contare che il racconto che si sviluppa sui due piani, quello della vicenda personale di Alfredo e quello criminale di Lallo, spesso confonde il lettore in un oscillare continuo ed estenuante. Un tentativo non riuscito. Forse la dipendenza psicologica poteva essere meglio approfondita? Le vicende reali meglio definite? Il legame fascinoso tra giovani e criminalità meglio chiarito?
In fondo e a conclusione del romanzo, emerge la convinzione che nella vita governa il caso, o per meglio dire il caos, e che tutti meritano pietà, anche i feroci. Una sanatoria che scontenta il lettore.