La recente riflessione di Giorgetti, che si inserisce nel dibattito e nel gioco di schieramenti intorno alla figura del prossimo Presidente della Repubblica, suggerisce un’ipotesi di semi- presidenzialismo che qualcuno si è precipitato a bollare come “eversiva”.
Viceversa, lungi dall’essere eversiva, l’ipotesi di un Presidente della Repubblica che dà un indirizzo di fondo al governo, rispecchia un’evoluzione in atto nel paese da almeno una ventina d’anni, nei quali abbiamo visto crescere il peso della presidenza in modo naturale e quasi spontaneo, forse con l’unica eccezione di Cossiga che ha interpretato il ruolo più in chiave distruttiva che costruttiva.
Il peso della figura istituzionale del Presidente della Repubblica, sottratta al voto popolare e scelta con un meccanismo fondamentalmente cooptativo, è cresciuto spesso di pari passo con il fallimento di esperienze di governi portati alla ribalta da un vasto voto popolare.
Una delle principali motivazioni nella visione di Giorgetti è stata probabilmente la preoccupazione di valorizzare al meglio la risorsa Draghi, che ha goduto fino ad ora del vantaggio determinante, ancorché precario, di governare in sostanziale assenza del fuoco dell’opposizione. Questo gli ha permesso di concentrarsi sul merito dei provvedimenti, anziché sulla loro “vendibilità” in termini di consenso elettorale, come invece avviene per i normali governi politici.
In questo momento, nessuno è in grado di fare previsioni credibili sullo sbocco dell’elezione del prossimo presidente, che molti attori potranno influenzare. Quello che appare però inevitabile è che l’appoggio generalizzato di cui gode il governo Draghi si esaurirà presto, una volta giunta alla conclusione la vicenda del Colle.
Se l’elezione del Presidente vedesse una vasta convergenza su una figura di prestigio diversa da Draghi, quest’ultimo verrebbe ridimensionato a capo di un altro governo tecnico come tanti ne abbiamo avuti e, come i suoi predecessori, con scadenza a termine. Ma ancora più precaria diverrebbe la posizione di Draghi se la scelta del Presidente fosse frutto di una forzatura che portasse all’affermazione di una figura divisiva.
Dunque, il modo migliore di valorizzare in modo “sostenibile” la risorsa Draghi rimane quello di metterla al sicuro in una carica protetta dal logorio dell’azione di governo.
Questo consentirebbe di mantenere intatto il peso di Draghi nelle scelte strategiche, senza gettarlo nella mischia delle convenienze elettorali dei partiti.
Molti cambiamenti costituzionali avvengono senza essere codificati da norme scritte, bensì attraverso la normale prassi istituzionale. Perché le istituzioni si evolvono sempre, in risposta alle esigenze che mano a mano emergono dalla società e che non erano state previste al momento della scrittura della carta costituzionale. Basti pensare allo strumento dei DPCM, che ha permesso di rispondere con efficacia e rapidità all’emergenza creata dalla pandemia. Ma le istituzioni si evolvono anche, entro certi limiti, prendendo la forma di chi le occupa (raccontano che Fanfani, Ministro degli Esteri, chiamasse il segretario generale della Farnesina con il campanello).
Una figura del prestigio di Draghi potrebbe determinare un’evoluzione naturale verso il semi- presidenzialismo, senza necessità di riscrivere la costituzione a all’interno dei poteri e contropoteri che quest’ultima già prevede.