La città dei vivi, di Nicola Lagioia (Einaudi 2020), appartiene alla terna dei testi di narrativa che concorrono per il Premio Napoli 2021.
Marzo 2016, gli appassionati di cronaca nera, ma anche coloro che seguono le notizie sui giornali o in rete, non possono non ricordare il delitto Varani. Una storia di sesso, droga, sangue che si consuma al decimo piano di un palazzone della periferia romana dove due giovani, Manuel Foffo e Marco Prato, ne uccidono un terzo, Luca Varani, dopo lunghe ed inenarrabili torture.
Questo lo spunto narrativo che si dipana per oltre 400 pagine, raccontando, esaminando, sviscerando la vicenda nelle sue motivazioni più complesse. L’autore utilizza una chiave di racconto che si articola su tre piani: la vicenda in sé e per sé; la città che l’ha ospitata e forse generata; il narratore che teme di riconoscere in sé i meccanismi del tutto umani, anche se sommersi, che hanno determinato tanta crudeltà gratuita.
Quella sera, però, al decimo piano di via Igino Giordani, sembrava che tutta la disperazione, il livore, l’arroganza, la brutalità, il senso di fallimento di cui era piena la città, si fossero concentrati in un unico punto.
La Roma di Lagioia ricorda la Roma di Sorrentino ne La grande bellezza. Un mondo oscuro, un mondo di mezzo (non a caso nel 2016 si scoperchia la trama di corruzione in città), un mondo popolato da personaggi dalla personalità inafferrabile. Nel romanzo non c’è solo la società decadente che si nasconde nei palazzi romani, tutta la città è ricoperta da una coltre scura fatta di male, compiuto senza motivo. Male assoluto. La stessa vittima, Luca Varani, ha lati oscuri. Il che ovviamente non mette in discussione la condanna per i suoi assassini che hanno alle spalle storie familiari difficili, rapporti genitoriali irrisolti, che comunque non li rendono incolpevoli.
Quando La città dei vivi si apre, su questo scenario oscuro che è Roma, il delitto è già stato commesso. Ne parla Manuel nel giorno del funerale dello zio, lo racconta al padre sbigottito, dichiarando di non conoscere neanche l’identità della sua vittima. Mentre Manuel confessa, in un hotel poco distante la voce di Dalida, sparata a palla, riempie una stanza in disordine: è quella di Marco Prato che ha tentato il suicidio. Il testo ricostruisce personalità e abitudini dei tre giovani attraverso le voci di familiari, amici, avvocati e attraverso le trascrizioni degli interrogatori, cui Lagioia ha potuto accedere, ricostruendo fedelmente il prima, il durante ed il dopo della vicenda.
Il piano di narrazione più intrigante è quello in cui il narratore si mette in gioco come specchio potenziale della malvagità che anima i protagonisti.
A un caso del genere, per dirla meglio, era impossibile che io fossi capace di sottrarmi. Ciò a cui siamo scampati è molto spesso ciò che non abbiamo avuto il tempo di capire, e quando dopo anni quella cosa si ripresenta in una veste nuova è di solito per farsi interrogare come non eravamo riusciti a fare allora.
Se è vero che la vita di Varani, Prato e Foffo getta una luce ambigua sulla città, sulla sua stratificazione sociale, presa in assoluto la storia getta una luce violenta sulla gratuità dell’accaduto, sulla presenza del Male.
Un docu-testo di cui è possibile ascoltare in rete il podcast, letto dall’autore, cui sono state aggiunte le voci dei protagonisti e delle persone coinvolte. Il testo che è cronaca, romanzo, diario, pur essendo di considerevole mole si legge senza sforzo. Sebbene si conosca la vicenda e quindi al netto della sorpresa, si scoprono elementi sempre nuovi e diversi, frutto di un’indagine accurata ma soprattutto di una lettura complessiva del fatto e dell’humus in cui si sviluppa, senza contare le riflessioni che può generare.
Lagioia, premio Strega 2021 con La ferocia, in questo libro conferma le sue doti di narratore preciso, mai approssimativo, capace di dare linfa vitale anche a documenti giudiziari, potente nelle descrizioni ma pietoso nel maneggiare una materia così dolorosa e tragica.