Abbiamo avuto modo di vedere in un cinema finalmente affollato l’ultimo film di Paolo Sorrentino. Dopo i successi di critica (Leone d’Argento e Premio Speciale della Giuria all’ultimo festival di Venezia, candidatura all’Oscar) arriva anche il gradimento del pubblico. Che sta approfittando della breve finestra temporale in cui il film è programmato nelle sale cinematografiche, atteso che da metà dicembre sarà visibile sulla piattaforma Netflix.
La storia è ormai nota: riguarda l’adolescenza di Fabietto Schisa (l’alter ego del regista), diciassettenne col cuore in tumulto che, costretto dalla improvvisa morte dei due genitori anziani, deve accelerare per forza il proprio personale processo di maturazione personale ed artistica, arrivando a lasciare la città natale per Roma per inseguire la sua vocazione per il cinema.
Siamo a Napoli negli anni Ottanta, quando approda nella squadra di calcio partenopea il più grande calciatore di tutti i tempi: Diego Armando Maradona.
Chi ha vissuto quegli anni ricorderà certamente il clima sospeso che viveva la città nella speranza che si concretizzasse davvero quella che per molti era l’ennesima vana chimera di un popolo alla ricerca di riscatto sportivo, ma non solo, dallo strapotere delle squadre del Nord.
Gli attori, come sempre nei film di Sorrentino, sono strepitosi: l’ormai solito Toni Servillo, Renato Carpentieri, Luisa Ranieri e lo stupefacente Filippo Scotti che interpreta proprio il giovane Fabietto.
La storia di una famiglia borghese napoletana negli anni Ottanta incrociata con la storia della città in quel periodo, che inevitabilmente fanno da sfondo ai dolori ed alle gioie di un adolescente solitario e sensibile alla ricerca del proprio posto nel mondo. La mano di Dio del titolo è quella arcinota del gol di rapina fatto da Maradona all’Inghilterra durante i mondiali del 1986.
Una sliding door, un vero e proprio spartiacque simbolico, che diventa tristemente reale quando i genitori di Fabietto muoiono entrambi per una tragica intossicazione da monossido di carbonio, nella casetta di Roccaraso che avevano finalmente comprato quale coronamento di un sogno borghese coltivato tutta la vita. Fabietto si salva perché era a vedere proprio una partita di Maradona allo stadio grazie all’abbonamento regalatogli dal padre.
È finito il tempo delle malinconiche attese e dei giochi, la vita adulta irrompe con tutta la sua brutalità.
Poetico, intenso, a tratti struggente, È stata la mano di Dio è forse il meno sorrentiniano dei film di Sorrentino. La consueta carrellata di personaggi ritratti nel loro aspetto grottesco non manca, ma la vena inaspettatamente comica del film, soprattutto nella prima parte, stempera ed annacqua l’indagine entomologica delle tipologie e delle frenesie umane a cui ci aveva abituato il regista.
È un film chiaramente autobiografico, lirico ed incantato, dove l’amarcord felliniano è fin troppo evidente (del maestro romagnolo sentiamo la voce in una scena).
Sincero sino alla sfacciataggine, ambiguo come tutti i ricordi, Paolo Sorrentino torna a girare a Napoli e su Napoli, per raccontare a se stesso come è diventato Paolo Sorrentino. Troppo doloroso il magma dei ricordi, troppo difficile plasmare una materia così tagliente e personale, sicché ne esce un film generoso, divertente, struggente ma anche imperfetto, dove il rischio della facile oleografia è dietro l’angolo (abbiamo trovato veramente stucchevole e autocelebrativa la scena finale dove Napule è di Pino Daniele fa da colonna sonora).
Ma è anche un film di lettura chiara, non troppo tecnica ed intellettuale, che troverà sicuramente il favore di un pubblico più ampio attratto da questa storia in cui è facile ed immediato identificarsi. Si piange e si ride andando incontro al nostro destino aiutati dalla mano di Dio.