Recentemente il professore Alessandro Bianchi, curatore di questa rubrica, vi ha pubblicato un suo bell’articolo sul percorso della transizione ecologica, con particolare riferimento alla città di Roma (https://www.genteeterritorio.it/la-transizione-ecologica-un-percorso-tutto-da-definire/). E’ partito dalla definizione dei termini. Transizione ecologica significa passaggio verso un equilibrato rapporto con l’ambiente naturale, “un rapporto che, con ogni evidenza, si è rotto e va causando fenomeni degenerativi sempre più gravi e frequenti”.
Proviamo a scendere in un maggiore dettaglio. Quando un rapporto può dirsi equilibrato? E fra quali elementi?
Lo scorso luglio, è stato pubblicato l’Appello degli scienziati del mondo sull’emergenza climatica, sottoscritto da oltre tredicimila scienziati (Ripple W.J. et al, 2021, “World scientists’ warning of a climate emergency 2021”, BioScience). “Quello che dobbiamo fare ora è unirci come una comunità globale con un senso condiviso di urgenza, cooperazione ed equità”.
Precaution advocacy, ossia informare la popolazione, non abbastanza allertata, sull’emergenza climatica e i relativi impatti, cercandone il coinvolgimento emotivo. Crisis communication, ossia lo scambio interattivo di informazioni tra gli esperti e il pubblico. L’azione, ossia invocare urgenti cambi di rotta. “In senso lato, l’educazione al cambiamento climatico dovrebbe considerare gli esseri umani come individui capaci di cambiare i loro comportamenti per ridurre i rischi”.
Se ne deduce che gli elementi in gioco sarebbero, da un lato, l’ambiente naturale e, dall’altro, il genere umano. Il rapporto tra questi due elementi sarebbe equilibrato nella misura in cui non determina un impatto grave sulla nostra vita. Sembra ovvio, addirittura lapalissiano. Come non essere d’accordo?
E’ infatti d’accordo Biden, che guida il secondo Paese più inquinante al mondo. E’ d’accordo Macron, la cui Francia intende potenziare la costruzione di centrali nucleari come se producessero energia verde. Sono d’accordo le industrie automobilistiche, che inseguono il business della sostituzione dell’intero parco macchine con vetture elettriche. Si potrebbe continuare con decine di altri esempi.
Forse la questione è più complessa. Il concetto di umanità, infatti, racchiudendo l’intero genere senza individuarne le molteplici specificità, finisce per diventare generico e forse non del tutto idoneo ad individuare e mettere in atto le necessarie strategie di intervento e le relative priorità. Se vivo ad Haiti, per esempio, un tornado ha su di me un impatto ben più devastante rispetto a quello che avrebbe, che so, su di un newyorkese. Se vivo da agiato a Taranto, posso permettermi di abitare ben lontano dall’acciaieria e di chiederne la chiusura tout court, ma se ci lavoro come operaio non posso farlo e devo lottare perché la produzione continui seppure riducendone l’impatto ambientale.
Insomma, l’ambiente è naturale di per sé per il semplice fatto che esiste, ma non è equilibrato o disequilibrato per tutti allo stesso modo. Dipende dalla posizione che si occupa all’interno del sistema produttivo. Come per la fame nel mondo o le pandemie globali. Non colpiscono tutti in maniera uguale e di conseguenza le contromisure vanno tarate sugli specifici obiettivi che si vogliono raggiungere. Sembra che stia riferendomi alla teoria delle classi. E’ proprio così. Almeno per quanto riguarda l’analisi del problema.
Analogamente va forse affrontata la questione dei comportamenti individuali, che vanno certamente cambiati ma sono meno decisivi di quello che può sembrare.
Se caliamo il discorso nelle realtà cittadine, esistono contesti nei quali hai voglia di differenziare i rifiuti, andare in bicicletta e scendere in piazza con Greta, ma se mancano gli impianti di trattamento, il traffico veicolare è fuori controllo per la carenza di mezzi pubblici, il fiume sotto casa è una cloaca a cielo aperto perché vi scaricano senza controllo le fabbriche e mancano reti fognarie adeguate, allora serve a poco.
Analogamente per gli interventi di rigenerazione urbana. Facciamo l’esempio di Bagnoli a Napoli. Tutta l’Italia sa che vi si trova il sito dismesso dell’ex Italsider e tutti auspicano che si trovi una nuova destinazione per quell’area dalle enormi potenzialità oggettive. Eppure, non si riesce nemmeno a bonificarla dall’amianto. Perché la classe dirigente locale è inadeguata e tutti i Governi nazionali che si sono succeduti negli ultimi decenni se ne sono sostanzialmente disinteressati? Si. Ma questo è avvenuto perché non ci sono le condizioni, e quindi l‘interesse, per un rilancio produttivo della città. Si fosse trattato di Milano sarebbe stata tutta un’altra storia.
Ancora differenze, che sono quelle che contano. Individuarle, analizzarle, elaborarle è il presupposto di una vera transizione ecologica. E non solo.