Transizione Ecologica è una definizione impegnativa di cui bisogna capire bene il significato nei termini richiamati ancora nei giorni scorsi da Jeremy Rifkin, il padre del Green New Deal, specialmente se la si vuole applicare ad una grande città.
Dal punto di vista lessicale transizione significa passaggio da una situazione ad un’altra ed ecologica significa che ha a che fare con il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Da qui il termine ecologista che, nell’accezione ormai consolidata, definisce una posizione culturale e poi una politica con le connesse pratiche che hanno come obiettivo di far transitare una città verso una condizione di equilibrato rapporto con il suo ambiente naturale: acqua, aria, suolo, animali, vegetali. Un rapporto che, con ogni evidenza, si è rotto e va causando fenomeni degenerativi sempre più gravi e frequenti.
A partire da questa impostazione, se assumiamo come esempio una grande città come Roma le domande che si pongono sono due: Roma è in equilibrio ecologico? Roma ha avviato una fase di transizione ecologica?
A mio parere le risposte vanno date a partire da tre questioni prioritarie: rifiuti, trasporti, rigenerazione urbana.
Per quanto riguarda i rifiuti è evidente che non può essere in equilibrio ecologico una città che è assediata dal problema dei rifiuti.
Per quasi quaranta anni a Roma si è ritenuto di affrontare il problema sversando i rifiuti all’interno di una gigantesca buca larga 240 ha e profonda 40 metri, che Paul Connett ha definito “un ridicolo monumento alla pigrizia e alla stupidità umana, al cattivo governo”.
Poi da quando Malagrotta, quella discarica a cielo aperto, è stata chiusa nel 2013 non si viene a capo del come e dove smaltire le circa 5.000 tonnellate di rifiuti che a Roma si producono ogni giorno.
E non serviranno a risolvere il problema né il miglioramento della raccolta differenziata, né l’incentivazione del riuso, né l’aumento della capacità di riciclo, perché con questi interventi i benefici che si otterranno saranno comunque limitati.
Il punto è che il problema va affrontato alla radice, nel suo evidente nodo centrale: la riduzione della produzione di rifiuti, vale a dire la prima delle tre erre – Riduzione, Riuso, Riciclo – fissate dalla Direttiva dell’Unione Europea 98/2008.
Allora, per questo aspetto, se Roma vuole intraprendere la strada della transizione ecologica deve avviare nei confronti dei suoi cittadini una decisa campagna di sensibilizzazione e di convincimento affinché si attui una drastica riduzione – fino al 50% – dei rifiuti prodotti in ambiente domestico, sostenendola anche con adeguati incentivi di natura fiscale.
Quanto ai trasporti è altrettanto evidente che non può essere in equilibrio ecologico una città assediata da un traffico veicolare che, oltre a rallentare a dismisura gli spostamenti e quindi le funzioni urbane, contribuisce in modo decisivo all’inquinamento ambientale nelle sue diverse forme.
A Roma circolano circa 1.700.000 veicoli, il che corrisponde ad un rapporto di 6 veicoli ogni 10 abitanti; a Milano il rapporto è 5.0, a Madrid 4.8, a Londra 3.0, a Parigi 2.5.
Dunque è evidente che a Roma vi è un rapporto squilibrato tra mezzi pubblici e mezzi privati, per cui in questo caso la transizione ecologica non può che essere quella che assume l’obiettivo di togliere dalla strada nell’arco di dieci anni almeno 600.000 veicoli, con il che il rapporto scenderebbe a 4.0 veicoli ogni 10 abitanti, vale a dire paragonabile a quella delle grandi città europee.
Per ottenere questo risultato non c’è che una strada, quella di aumentare in quantità e qualità i servizi di trasporto pubblico, il che a Roma implica una scelta precisa: puntare sul Tram, vale a dire in assoluto il mezzo più ecologico nonché più economico (al costo di 10 Km di metropolitana si realizzano 100 Km di tram). Allora per avviare la transizione ecologica dovrebbe essere varato un piano di realizzazione di una rete tranviaria estesa all’intera città, passando dagli attuali 26 Km e dai previsti 44 Km, fino ad almeno 100 Km di lunghezza.
Infine, per quanto riguarda la rigenerazione urbana va detto che la questione ecologica non è neppure avvertita, anzitutto perché è sconosciuto il suo oggetto di riferimento: il patrimonio dismesso e abbandonato.
A Roma non si ha idea di quale sia la consistenza quantitativa, la distribuzione all’interno della città e lo stato di conservazione in cui versa questo patrimonio di oggetti urbani – fabbriche, caserme, scali ferroviari, nosocomi, carceri, conventi, depositi – che causa situazioni di degrado, di inquinamento, di pericolo e ingenera costi economici e sociali.
Si aggiunge a questo, il fatto che non si ha contezza di che cosa sia la rigenerazione urbana, continuando a confonderla con la riqualificazione, la ristrutturazione, il risanamento, la riabilitazione, tutte pratiche ampiamente consolidate ma di altra natura. La rigenerazione è tale se modifica il genere dell’oggetto su cui è intervenuta: se una fabbrica diventa un centro polifunzionale, se una centrale elettrica diventa un museo, se una caserma diventa un quartiere residenziale, se una stazione ferroviaria diventa un parco urbano, come è avvenuto in molti casi esemplari di rigenerazione attuati in grandi città europee e in troppo pochi a Roma.
E’ facile comprendere che praticare questa strada significa anche pensare in modo affatto nuovo la città, affidando la crescita delle funzioni urbane non più alla storica e persistente logica dell’espansione e dell’occupazione di suolo, ma alla rimessa in gioco del suo enorme e prezioso patrimonio immobiliare dismesso.
Allora è necessario che sul piano culturale venga compreso e fatto proprio il concetto di rigenerazione urbana, e su quello pratico si parta da un censimento sistematico di questo sconosciuto patrimonio.
E’ così che anche in questo caso sarebbe possibile avviare la transizione ecologica.