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Il Mezzogiorno nell’economia italiana, di Nicola Acocella

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Giuseppe Mazzini, ancor prima della unificazione nazionale, affermò profeticamente: “L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà”. L’affermazione ha anticipato i tempi, pur se non ha trovato molti sostenitori nello scenario politico.

Per comprendere le traiettorie che il Sud ha attraversato dall’unità del Paese ai nostri giorni, è utile leggere il volume di Nicola Acocella, “Il Mezzogiorno nell’economia italiana. Dall’Unità alle prospettive contemporanee”, Carocci, 2021.

Il Regno di Napoli aveva conosciuto, nel diciottesimo secolo, il progresso determinato essenzialmente dall’illuminismo e dagli intellettuali napoletani che ne furono protagonisti. Fin dal 1784 era stata istituita la scuola pubblica, laica, uniforme e generale per tutti i ceti sociali. Nel 1792 a Napoli esistono 40 scuole pubbliche, con 46 maestri, mentre nel resto del Regno esse sono 75, con 11 maestri.

Dopo qualche decennio da questa innovazione, venne depotenziata l’importanza dell’educazione pubblica a vantaggio di quella privata, la cui qualità tendeva a deperire, tanto che questa venne definita la “peste del Regno” negli stessi ambienti ecclesiastici.

Al contrario, nel Lombardo-Veneto il Codice scolastico austriaco previde l’istituzione di scuole elementari per corsi di due anni in ogni circoscrizione parrocchiale, con frequenza obbligatoria di entrambi i sessi di età tra i 6 ed i 12 anni. Questo spiega abbondantemente il divario tra il tasso di iscrizione alla scuola dei bambini nel Regno delle Due Sicilie (6,6%) e nel Lombardo-Veneto (52,6%). Questo divario tende per lungo tempo ad allargarsi, sino a registrare nel 1864 un tasso di analfabetismo pari all’87% nel Mezzogiorno.

Lo stesso meccanismo di avvio nel cambiamento e stallo successivo nelle trasformazioni si determina, all’inizio del diciannovesimo secolo, per lo sviluppo delle ferrovie. È il Meridione ad introdurre l’innovazione, con la costruzione della tratta tra Napoli e Portici, mentre è il resto del Paese ad industrializzare una rete ferroviaria al servizio dello sviluppo. Al momento della Unità d’Italia il Mezzogiorno può contare solo su 184 km di ferrovia rispetto a 2.236 km del resto del Paese.

Questa caratteristica che spesso ha visto il Mezzogiorno cominciare il percorso di modernizzazione, perdendo però nella rincorsa alla diffusione delle innovazioni rispetto al resto del Paese, può stare alla base delle rivendicazioni neoborboniche sul primato meridionale e sulla subalternità indotta dalla conquista.

Negli anni Ottanta dell’Ottocento il reddito pro-capite al Sud è ancora il 98% circa di quello del Centro-Nord, mentre si approfondisce nel ventennio successivo, per arrivare ad essere nel 1914 circa il 79% rispetto al resto del Paese. Tale risultato si determina nonostante le numerosi leggi speciali che vengono emanate dal Parlamento: la prima nel 1887 per la Sardegna seguita nel 1903 dalla legge per la Basilicata, dalla legge sulla industrializzazione di Napoli promossa da Francesco Saverio Nitti nel 1904, dalla legge per la Calabria del 1906.

Il differenziale tra i territori nazionali, nonostante i tentativi di correzione di rotta determinati dalle leggi speciali sul Mezzogiorno, continua a crescere nel periodo tra le due guerre mondiali e sotto il fascismo, sino a raggiungere la punta massima nel 1951, con un divario pari al 53%.

Poi la rotta si inverte, ed il reddito pro-capite meridionale torna ad avvicinarsi al resto del Paese, recuperando nel successivo ventennio venti punti percentuali, proprio nella stagione del massimo sviluppo nazionale, con il cosiddetto miracolo economico.

La Cassa per il Mezzogiorno costituisce il principale veicolo della ripresa meridionale. Durante la sua esistenza ha investito 82.410 miliardi di lire (circa 42,6 miliardi di euro), costruendo 16.000 km di strade, 23.000 km di acquedotti, 40.000 km di reti elettriche, 1.600 scuole, 160 ospedali. Nel ventennio successivo al 1951 il Pil del Sud cresce di tre volte, più che nell’intero novantennio precedente, mentre in tutto il periodo successivo sino ai giorni nostri aumenta appena una volta e mezza.

Negli anni Ottanta del ventesimo secolo cambia nel Mezzogiorno la strategia di sviluppo: si passa da un modello di stimolo all’offerta verso un modello di supporto alla domanda, attraverso il welfare state e i sussidi alle imprese. A partire dagli anni Novanta le privatizzazioni depotenziano la grande impresa, affidandola ad un capitalismo privato con scarse capacità propulsive. Ci si culla troppo sulle capacità espresse dalle piccole e medie imprese.

Dal 2008 al 2018 il Pil del Mezzogiorno si riduce in misura maggiore (-10%), pur con una ripresa negli ultimi due anni, mentre il Centro-Nord ha quasi assorbito gli effetti della crisi, con una riduzione contenuta nei limiti del 2,4%. L’industria manifatturiera si è ridotta di quasi un quarto nel Sud, mentre il Centro-Nord è stato più resiliente durante la crisi, perdendo solo il 2,9% delle fabbriche.

Arriviamo ad oggi, con la grande opportunità del Plano Nazionale di Ripresa e Resilienza, basato sui pilastri delle riforme e degli investimenti. Per il Mezzogiorno si gioca una partita decisiva, quella di essere maggiormente inserito nella trama delle relazioni commerciali internazionali, che costituisce l’arena competitiva per generare un nuovo modello di sviluppo economico capace di sostenere la ripresa del Sud e dell’Italia. Questa è la sfida delle zone economiche speciali.