L’Autore è Ricercatore Associato della Stazione Zoologica Anton Dohrn.
Nel dicembre 2017 le Nazioni Unite (UN) hanno promosso la Decade of Ocean Science for Sustainable Development, con l’obiettivo di: 1. migliorare la conoscenza sul funzionamento dell’oceano al fine di poter, almeno parzialmente, prevenire possibili impatti di eventi estremi legati a processi meteo-marini, 2. ridurre, attraverso un censimento e controllo delle fonti, l’immissione di inquinanti in mare e 3. aumentare il contributo del mare allo Sviluppo Sostenibile. In verità il piano di implementazione è più ricco ed articolato (https://oceanexpert.org/downloadFile/47522) ma descrive principalmente le sfide da affrontare per migliorare la conoscenza del dominio marino e suggerisce, come priorità, l’intensificazione delle osservazioni, anche con tecniche innovative, e la piena disponibilità dei dati. Tre parole chiave, ricorrenti con periodica regolarità nella maggioranza dei documenti ufficiali di associazioni intergovernative, governi e associazioni di scopo, sono presenti nel titolo dell’iniziativa: Oceano (mare), Sviluppo, Sostenibilità. L’iniziativa in realtà non nasce dal nulla, ma si lega ad un passo di due anni precedente, sempre delle UN, in cui furono lanciati 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile, in gergo SDG (Sustainable Development Goals), di cui quelli più strettamente legati al mare sono il numero 14 (la vita sott’acqua), il 7 (energia pulita e conveniente), il 13 (azioni per il clima) e il 2 (superamento della fame). Aiuta ad inquadrare questa iniziativa un documento: “A Sustainable Ocean Economy for 2050. Approximating Its Benefits and Costs” (https://oceanpanel.org/sites/default/files/2020-07/Ocean%20Panel_Economic%20Analysis_FINAL.pdf), stavolta commissionato dal ‘High level panel for sustainable ocean economy’ (https://www.oceanpanel.org/about) uno dei numerosissimi panel che si formano, durano per un po’, per poi scomparire, di cui fanno parte rappresentanti di governi di 14 paesi, ma non degli USA né dell’Italia. Se pur impostato con un’ottica differente, che è quella di stabilire fino a che punto sia possibile sviluppare attività economiche basate sul mare che riducano uno dei processi attualmente considerati antitetici alla sostenibilità, ovvero le emissioni di gas serra, principalmente CO2, in atmosfera, il documento mette al centro il tema economico.
Nell’ultimo ventennio sono proliferate altre iniziative, direttive, regolamentazioni, su cui si potrà tornare successivamente, aventi come oggetto il mare. La Blue Growth o Crescita Blu è un’altra parola chiave, che dopo vari anni di esistenza autonoma è diventata parte, di fatto, del più vasto Green Deal.
Allora, perché tanta attenzione per il mare? Uno degli obiettivi, in realtà dichiarato, è legato all’aspettativa che sia un settore con notevoli potenzialità di sviluppo negli anni futuri, ovvero di produrre profitti, compensando una crescita in molti casi più lenta a terra (https://read.oecd.org/10.1787/9789264251724-en?format=pdf).
Ma qual è veramente il peso dell’economia legata all’utilizzo delle risorse marine in senso lato? Le stime oscillano tra il 2.3% ed il 3.5% (v. documenti citati) in relazione a cosa venga incluso nella stima. L’aspettativa è che il tasso di crescita del settore possa essere (leggermente) più alto di quello di molti settori a terra. Ma con l’attuale peso non potrà in tempi brevi giocare un ruolo cruciale nel compensare eventuali defaillances a terra. Per quanto riguarda il cibo, pur considerando che le carenze nella provvista di cibo dipendono molto di più dalla produzione e gestione del prodotto cibo per il mercato che dall’impossibilità di produrre cibo sufficiente almeno per la popolazione attuale, il contributo del mare è rilevante per le popolazioni costiere dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, ma copre complessivamente solo il 17% delle proteine animali consumate dall’uomo (https://doi.org/10.1038/s41586-020-2616-y). Inoltre, la pesca ha raggiunto da almeno 30 anni un livello di saturazione che potrebbe essere migliorato solo sfruttando stock di specie diverse ed imponendo un alternanza nelle specie da catturare per favorire un recupero degli stock, mentre, almeno in teoria, sarebbe possibile innovare le tecniche di acquacoltura, che già oggi, ma soprattutto nelle acque interne, fornisce un sostanziale contributo alla produzione di specie acquatiche (https://doi.org/10.1038/s41586-020-2616-y). Insomma, una cosa da curare ma non dominante. Le stime dell’energia pulita derivabili realisticamente dal mare avrebbero il vantaggio di non emettere gas serra ma coprirebbero solo una parte dell’attuale fabbisogno energetico (v. documento del panel). D’altra parte, nonostante la fortissima spinta per utilizzare i giacimenti di petrolio e gas sottomarini, la necessità di ridurre le emissioni, che più che una motivazione etica ne ha una economica perché l’impatto dei cambiamenti climatici colpisce sia la società tutta, con rischi di instabilità, che soprattutto l’economia (v. ad esempio https://www.swissre.com/dam/jcr:e73ee7c3-7f83-4c17-a2b8-8ef23a8d3312/swiss-re-institute-expertise-publication-economics-of-climate-change.pdf) va contro lo sfruttamento di combustibili fossili dal mare o, perlomeno, lo rende controverso.
A cosa si può quindi ricondurre questo crescente interesse per il mare. Probabilmente ad un intreccio di fattori. Il primo è quello già discusso: è una nuova risorsa che può, una volta avvicinatisi meglio, offrire potenzialità per ora non percepite. Il secondo è che l’oceano contiene, sia in acqua che nei fondali, metalli rari, che pur diluiti, hanno un grosso valore per le nuove tecnologie (https://www.geomar.de/en/news/article/salt-for-the-soup-trace-metals-in-the-ocean). Il terzo, ed in questo momento sicuramente prevalente, è che il mare è in assoluto il principale ‘veicolo’ per il trasporto delle merci. Il 90% delle merci che distribuite nel mercato vengono trasportate per mare (https://www.oecd.org/ocean/topics/ocean-shipping/), che è poi il vero motivo per la gara in corso per il controllo del mare. Quindi, ci sono motivazioni legate a due aspetti. Il primo è la ricerca del consenso. Mandare il messaggio che i governi si preoccupano della qualità dell’ambiente e del benessere della popolazione fa parte della normale propaganda, che si alimenta di riunioni, gruppi di lavoro, panel, etc. che svolgono questo ruolo in cambio di visibilità e discreti benefici individuali. C’è infine la comunità scientifica, che anche quando è spinta da oneste motivazioni di conoscenza finisce per prestarsi ad assecondare queste dinamiche per poter supportare la propria ricerca. E’ esperienza di molti ricercatori che nelle proposte di progetti europei la parte più difficile da compilare sia quella degli ‘impatti’ in cui si devono illustrare, spesso non senza forzature, le importanti ricadute sociali di un’attività che è essenzialmente conoscitiva e che ha certamente nel complesso un impatto fondamentale sulla società, ma non necessariamente nel breve periodo e sullo specifico tema di un progetto di ricerca.