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L’illusione liberista

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Sta per uscire in libreria il volume dell’economista Andrea Boitani, “L’illusione liberista. Critica dell’ideologia di mercato”, Laterza, 2021. Se ne discuterà ad Oliveto Citra, nell’ambito del Premio Sele d’Oro, il 10 settembre prossimo alle ore 18, in un dibattito al quale parteciperanno, oltre all’autore del libro, Giuseppe Coco, Claudio De Vincenti, Amedeo Lepore ed il sottoscritto. Ospite d’onore nella discussione sarà l’economista statunitense Deirdre Nansen McCloskey.

Andrea Boitani appartiene ad una scuola di pensiero economico che ha sempre assegnato rilevanza al mercato, pur riconoscendone limiti e difetti. Il progetto liberista ha invece cercato, e tuttora cerca, di realizzare non solo un’economia di mercato ma anche una società che, in definitiva, si risolve nel mercato. Questo approccio ha vissuto una lunga stagione dominante, dagli anni Ottanta del secolo passato almeno sino alla crisi finanziaria del 2007. A quel punto si è cominciato a fare strada il convincimento che il mercato non può essere un feticcio ma uno strumento al servizio di obiettivi che la società pone, attraverso le istituzioni democratiche.

Sin da Platone e Aristotele i mercati dovevano essere sottoposti a leggi e regole definite dalla politica. Solo con il progressivo abbattimento delle barriere tra mercati locali e mercati esteri, e con la formazione dei mercati nazionali, la concorrenza si è fatta strada. Spesso capita che alcune locuzioni rappresentino la coda non osservata di un fenomeno altrimenti inesplicabile. Prendiamo in considerazione un’affermazione tipica dell’approccio liberista: i mercati coordinano le libere scelte in modo massimamente efficiente … a determinate condizioni. Questi vincoli conducono spesso in realtà astratte ed ipotetiche, mentre i fatti si incamminano in direzioni opposte, con buona pace dei liberisti.

Ma l’approccio ideologico al mercato elude una serie di questioni vitali per la società e per gli individui. Innanzitutto, non si prende nemmeno in considerazione la distribuzione del reddito e della ricchezza, che per i liberisti è irrilevante nel migliore dei casi, persino giusta a prescindere negli altri. Non si prendono nemmeno in considerazione le diverse caratteristiche dei mercati, che scambiano beni, valori, prestazioni di natura completamente differente. I mercati non funzionano allo stesso modo, e tali differenziazioni vanno prese attentamente in considerazione. Il mercato del lavoro mette in moto dinamiche e meccanismi che non possono essere assimilati a nessun altro caso.

Ma soprattutto, il mercato va corretto quando non funziona, e sono molti i casi che determinano distorsioni tali da richiedere un intervento delle istituzioni e delle regole. Le esternalità negative, la formazione di monopoli ed oligopoli, segnali di prezzo che possono essere distorti dalle aspettative o da informazioni asimmetriche, la disoccupazione involontaria: sono alcuni dei più evidenti casi in cui il mercato è soggetto a fallimento e quindi richiede un’azione correttiva.

Per i liberisti teologici il mercato deve essere difeso dalle interferenze esterne: riguarda essenzialmente i diritti e gli interessi degli individui. Con questa finalità nacque nel 1947 la Mont Pellerin Society, fondata da Friedrich von Hayek. Anche il potere di mercato, secondo George Stigler, non è poi così negativo. Sono le grandi imprese ad essere più produttive, a fare più ricerca, ad innovare di più, a pagare meglio i lavoratori. Peccato che poi i giganti, quando esercitano il potere di mercato, guardano solo alla massimizzazione dei profitti ad ogni costo, come stiamo verificando ora con i colossi della digitalizzazione e con i cartelli dell’economia marittima.

Insomma, la teologia liberista si può riassumere con il famoso slogan del Presidente USA Ronald Reagan: “Lo Stato non è una soluzione ai nostri problemi. Lo Stato è il problema”. Eppure un altro Presidente statunitense, in un differente periodo storico, aveva espresso un avviso radicalmente differente. Aveva dichiarato Franklin Delano Roosevelt: “Noi della Repubblica abbiano colto la verità che il governo democratico ha la capacità innata di proteggere la propria gente dai disastri che una volta erano considerati inevitabili. Ci siamo rifiutati di lasciare che i problemi del nostro benessere venissero risolto dai venti del caso e dagli uragani del disastro”. Gli Stati democratici, come ha argomentato Robert Dahl, hanno respinto tanto la pianificazione centralizzata tipica del vecchio socialismo sovietico quanto il liberismo puro, per abbracciare un sistema economicamente misto, in cui i risultati di mercato sono sostanzialmente modificati dall’intervento pubblico. Si tratta di quello che Romano Prodi ha definito il capitalismo ben temperato.

Con il liberismo degli anni Ottanta del secolo passato sono venute le liberalizzazioni e le privatizzazioni, che possono rivelarsi uno strumento capace di promuovere efficienza e sviluppo, se ben temperate, oppure possono tradursi in grandi regali alla finanza ed al potere di mercato, se mal concepite d peggio realizzate. Per disciplinare i mercati non bastano solo le regole, perché sono di carattere statico. Come ha detto Mario Draghi, le regole “non possono essere aggiornate rapidamente quando si presentano circostanze impreviste, mentre le istituzioni possono essere dinamiche e flessibili nel loro approccio”. L’Unione Economica e Monetaria è stata campionessa mondiale di un approccio di politica economica basata esclusivamente sulle regole. Fortunatamente, quando è stato necessario, la Banca Centrale Europea, con il noto approccio del “whatever it takes”, è intervenuta a difesa della stabilità dell’euro e delle finanze pubbliche in quel momento sotto attacco da parte dei mercati.

La finanziarizzazione degli anni Novanta del secolo passato è stata un altro esempio di cattiva regolamentazione con pessime conseguenze. A dicembre del 2000 è stato completamente deregolamentato il mercato dei derivati. Nel 2009 tale mercato valeva 500mila miliardi di dollari, quando il Pil USA nello stesso anno era pari a 88mila miliardi.

Torniamo alla questione della distribuzione dei redditi, assente dalla mappa del liberismo. La diseguaglianza, come ci spiega Tony Judt, rompe i legami sociali, riservando onore e successo alla ricchezza e biasimo per l’insuccesso e la povertà.  Non conta solo l’aspetto monetario, che resta quello più visibile immediatamente, ma quelle che Amartya Sen ha definito le “capacità di funzionamento”: lunghezza della vita, salute, libertà, casa, conoscenze. Nei decenni recenti tutti questi fenomeni vanno letti nella chiave della globalizzazione: chi ha guadagnato di più da questo nuovo modello di struttura economica? Certamente la fascia ristretta dei più ricchi: il 5% della popolazione mondiale si è appropriato del 62% della ricchezza prodotta, mentre quasi il 30% è andato all’1%. Un vantaggio è certamente andato anche alla classe media globale dei paesi emergenti, mentre i grandi sconfitti sono parte delle famiglie a reddito medio nei paesi di più antica industrializzazione.

Emergono poi le questioni più attuali dei nostri tempi, quelle legate alla emergenza climatica. Non si tratta di questione futuribile. Già oggi sono 20 milioni gli africani coinvolti nelle migrazioni climatiche, e di questi 4 milioni sono connessi al prosciugamento del lago Ciad.

La politica procede in modo ancora sconnesso e balbettante: va ricordato che nel 1997 il Senato degli Stati Uniti aveva bocciato il protocollo di Kyoto con una votazione bulgara: 97 a 0. Nel 2020 abbiamo registrato l’anno più caldo del pianeta. E vedremo quale sarà la performance del 2021. I fenomeni meteorologici estremi sono all’ordine del giorno, mentre la riduzione delle risorse d’acqua dolce rischia di essere una delle cause dei prossimi conflitti.

Tra egoismo ed empatia si giocherà l’orizzonte dei prossimi decenni. Kenneth Arrow ci ricorda che è solo la fiducia che il perseguimento dell’interesse personale non sfocerà in comportamenti predatori e violenti a rendere possibile affidarsi alle transazioni di mercato, cooperando alla costruzione di regole e istituzioni capaci di rafforzare la fiducia stessa.

Andrea Boitani, in questo volume che si legge come un avvincente dibattito culturale, ci guida dentro discussioni teoriche, che poi diventano indirizzi politici e sociali. Ancora una volta, dobbiamo ricordarci che sono le idee, assieme agli interessi, a far muovere il mondo.