Metà Settecento, Napoli. Re Carlo di Borbone affida al celebre architetto Ferdinando Fuga, la progettazione del Real Albergo dei Poveri, poi completato a fine secolo da re Ferdinando IV, non senza varianti riduttive rispetto al progetto originario.
Primi di maggio 2021, Torino. Infastiditi dalla quotidiana presenza dei clochard che vanno a dormire sotto il porticato, i residenti del civico 9 di Piazza Statuto fanno posizionare, senza alcuna autorizzazione, dei dissuasori fisici anti-barboni, in pratica dei blocchi di cemento subito battezzati ‘panettoni’ dai torinesi. Inevitabili le proteste, la multa per aver occupato senza autorizzazione il suolo pubblico con oggetti tanto invasivi e finalmente, il dieci maggio, la rimozione dei “panettoni”.
La vicenda si è chiusa lì, ed è sospettabile che gli autori di tale iniziativa fin dall’inizio non avessero pensato di andare oltre. Hanno cercato la provocazione per segnalare il problema. Che non è solo quello del ricovero di fortuna dei senzatetto sotto il porticato, ma anche quello della sicurezza – molti gli episodi denunciati di aggressioni perpetrate da alcuni di questi sbandati in stato di ubriachezza – e di decoro. I residenti denunciavano il tanfo delle urine, degli escrementi e dei vomiti, nonché il rischio di diffusione di malattie infettive. Insomma, non si può liquidare la faccenda stigmatizzando la reazione ingenerosa dei signori del salotto buono della città sdegnati di dover sbattere ogni sera il muso contro la povertà. I problemi della sicurezza e del decoro c’erano ed erano drammaticamente concreti.
Condannabile non è l’iniziativa dei residenti, piuttosto la prolungata inerzia della pubblica amministrazione, mitigata solo in parte dall’azione caritatevole dei volontari, che a sera portavano ai clochard pasti caldi e garantivano un minimo di igiene ai luoghi. Non so ora che provvedimenti siano stati presi, ma pare che il problema sia stato solo spostato di qualche centinaio di metri da Piazza Statuto.
Torniamo quindi a trecento – dico trecento! – anni fa, a Napoli. Si era ai primordi dei fenomeni di urbanizzazione connessi all’attrazione esercitata dalla neo-capitale del Regno autonomo di Napoli, non più Vicereame, ed all’industrializzazione, allora nascente e che per un secolo fu anche fiorente nel Napoletano. La città fu interessata da un imponente fenomeno di immigrazione dalle campagne e dalle regioni regnicole. Per gestirlo re Carlo immaginò e realizzò una struttura capace di accogliere ottomila poveri, diseredati, sbandati e immigrati. Gli ospiti vennero divisi in quattro categorie: uomini, donne, ragazzi e ragazze.
Il progetto originario fu poi piegato verso il recupero dei giovani invece che come dormitorio pubblico. Vi si aprirono Scuole–Officine in cui vennero formati gli orfani maschi della Santa Casa dell’Annunziata e centinaia di ragazzi dei bassi. I giovani maschi studiavano grammatica, matematica, musica, disegno o si dedicavano all’apprendimento di mestieri manuali come stampatore, sarto, meccanico, calzolaio o tessitore. Le ragazze, invece, oltre che allo studio, erano indirizzate alla tessitura e alla sartoria, oltre che naturalmente all’economia domestica. Vi fu aperta una scuola per sordomuti e nel 1838 una celebre Scuola di Musica. Non potevano mancare e non mancarono in siffatta struttura un presidio medico, servizi igienici di prim’ordine, cucine, mense e spazi per le attività ludico-fisiche.
Lasciamo da parte ora quanto è segno dei tempi. Tanto per dirne una, figuriamoci se oggi qualcuno pensasse alla formazione delle fanciulle diversa da quella dei fanciulli! Ma, di fronte ai moderni fenomeni migratori ed alle nuove povertà, non sarebbe il caso di riflettere senza spocchia sul modello borbonico?