Ma no, non volevano creare la SuperLega per togliersi i debiti. Piuttosto si erano indebitati negli anni passati nella certezza che lo sbocco sarebbe stato la SuperLega. Vedrete, il progetto è solo rinviato, prima o poi lo concretizzeranno.
Sono dodici i club che hanno tentato ex abrupto lo strappo con la storia del calcio e con le sue istituzioni. Il meno indebitato tra loro è il Manchester City, 170 milioni di euro; il più esposto è il Tottenham, per un miliardo e 120 milioni; in mezzo le altre, tra le quali le italiane Juventus, Inter e Milan. Insieme la ‘sporca dozzina’ – così l’ha definita efficacemente il presidente dell’Uefa, Aleksander Ceferin – ha sul collo debiti per sei miliardi e mezzo! Tutti recuperabili nel giro di un solo anno con i proventi delle tv e del web, anticipati da JP Morgan, il fondo di investimenti più ricco del pianeta. La Superlega incasserebbe subito 10 miliardi, comprensivi di “…un contributo una tantum pari a 3,5 miliardi di euro a supporto dei piani d’investimento in infrastrutture e per bilanciare l’impatto della pandemia Covid-19…”.
Ma la pandemia non c’entra niente, salvo che per aver accelerato una decisione già presa a prescindere; e l’ha accelerata non per i mancati introiti che ha generato, bensì per aver dimostrato che il calcio tiene in tv e sul web anche senza pubblico sugli spalti.
Il progetto risale alla metà degli anni Dieci ed è stato messo a punto nel ‘18, quando Covid-19 non era ancora neanche una parolaccia. Tra i suoi primi sponsor ci fu il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentis, per il momento tenuto fuori dal club dei soci fondatori. Ma lui, imprenditore dello spettacolo, aveva capito tutto per tempo.
Il disegno nasce dalla consapevolezza che i club in questione non vendono più eventi sportivi, ma spettacoli sotto forma di calcio. E non c’è alcun dubbio che, se giochi Juventus-Carpi, lo spettacolo sarà quello che sarà e di conseguenza gli spettatori saranno in numero infimo rispetto, che so, ad una Real Madrid-Manchester City. Pochi spettatori pochi introiti pubblicitari. Se poi aggiungiamo che oggi una parte degli introiti dei campionati nazionali va a sostegno dei club minori, è facile comprendere come la sporca dozzina stia da tempo premeditando di sbarazzarsene.
Ad adiuvandum le ricerche di marketing hanno evidenziato come il pubblico giovanile, quello cioè dei consumatori del futuro, in maggioranza non si ferma per assistere ad una partita intera, guarda piuttosto gli highlights di massimo dieci minuti. Dai loro da ammirare dieci minuti di funambolismi e fatteli pagare in promozioni di prodotti rivolti a questo pubblico ed il gioco è fatto.
Certo, così stanno uccidendo lo sport, ammazzandone lo spirito competitivo, spegnendo le passioni popolari che fanno dell’amore per la maglia una fede identitaria. Ma tant’è, il campionato della Superlega – quando e come nascerà, perché di certo nascerà – sarà uno spettacolo circense senza anima, tutto estetismi, funambolismi e manierismi.
Avremo due calci, espressione ciascuno del mondo attuale. Da una parte il calcio-spettacolo della globalizzazione, dall’altra il calcio-passione delle identità territoriali. Quello dei globetrotters senza patria e senza terra e quello delle rabbiose emozioni identitarie.
Avevano capito tutto gli ultras della mia piccola ma fiera Cava de’ Tirreni qualche anno fa, quando dalla Curva Sud Catello Mari gridavano con tutto il fiato che avevano nel petto: Non-ne-possiamo più. Noi-odiamo-la-pay-tivù.
Quanto a me, che ne scrivo qui ed ora, spero solo che, quando sarà, il Napoli non venga ammesso nel club dei circensi. Mi spiace per le tasche di ADL, ma, per il poco tempo che mi resta, vorrei tenermi la mia ingenua, verace passione azzurra.