Ricorre oggi il 43° del terremoto della Campania e Basilicata del 23 novembre 1980. Non particolarmente celebrato perchè non è un anniversario tondo, mentre il passar del tempo tende a sfocare inesorabilmente la vividezza della memoria. Ma resta un evento scolpito nella storia recente di incancellabile potenza evocativa.
La calamità fu apocalittica. Alle 19,34 e 52 secondi di domenica 23, insolitamente afosa per una serata di fine novembre, una scossa ondulatoria e sussultoria di inaudita durata e violenza (magnituto 6,9 della scala Richter corrispondente al decimo grado dalla Mercalli), preceduta da un boato sconvolgente, si abbattè distruttivamente su 17.000 kmq dell’Italia Meridionale nella zona appenninica dall’Irpinia al Vulture. Il sisma attraversò il confine tra Campania, Puglia e Basilicata, sconquassando le province di Avellino, Salerno e Potenza ed altre in onda ridotta (compresa Napoli). Un’area estesissima, corrispondente all’intero Belgio, con epicentro localizzato tra le viscere dell’Appennino campano e lucano.
Negli eventi epocali il ricordo collettivo si coniuga con la memoria individuale. Nessuna delle persone allora residenti, non solo in Irpinia ma in tutta la Campania e la Basilicata, dimenticherà mai dove si trovasse e cosa stesse facendo in quei terribili ed interminabili novanta secondi che determinarono quasi 3.000 vittime, più di 8.000 feriti, circa 250.000 senzatetto ed enormi danni.
Venne subito in drammatica evidenza il grave ritardo e l’inadeguatezza delle operazioni di soccorso, con inefficienze per giorni al centro del dibattito pubblico e della polemica politica sino a far sfiorare la crisi di Governo. In realtà l’oggettiva insufficienza ed intempestività della macchina dei soccorsi, che impiegò circa cinque giorni per spalmarsi visibilmente sull’intero territorio colpito, fu determinata da una serie di cause oggettive: innanzitutto l’ampiezza delle aree colpite, soprattutto interne e montane, e l’accidentata orografia del territorio, spesso difficilmente accessibile; la parziale interruzione del sistema delle comunicazioni; la circostanza della domenica sera, sfavorevole alla immediata concentrazione delle poche forze disponibili in loco; la fitta nebbia che rallentò le operazioni di trasferimento; la non conoscenza dei luoghi da parte dei soccorritori provenienti dall’esterno; la sopravvenuta inagibilità di centri strategici per la gestione dell’emergenza, come il palazzo della prefettura di Avellino, municipi e comandi carabinieri (a Sant’Angelo dei Lombardi il sindaco Castellano ed il capitano Pecora perirono sotto le macerie).
Martedì 25 novembre il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, si recò in visita alle zone terremotate ed esternò il suo dolore ma anche la sua indignazione, in un messaggio televisivo a reti unificate che suonò come una forte critica all’operato delle strutture statali. L’esternazione inusuale e vibrante di Pertini mise in seria difficoltà il governo in carica, presieduto da Arnaldo Forlani, determinando le dimissioni poi (faticosamente) rientrate del Ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Il quale decise la rimozione del prefetto di Avellino Attilio Lobefalo, sostituito dal neopromosso Carmelo Caruso, e la nomina dell’On. Giuseppe Zamberletti a Commissario straordinario delle zone terremotate, il quale divenne l’efficace protagonista dell’avvio della ricostruzione e il pioniere dell’organizzazione della nuova protezione civile.
Lobefalo fece quindi da capro espiatorio pur avendo operato con tutte le sue umane possibilità, veicolando le richieste di soccorso alle incredule autorità centrali, ma versando nell’oggettiva impotenza di fronte ad una così catastrofica emergenza gestibile solo dal livello nazionale. Venne poi immediatamente prosciolto nell’indagine aperta dal procuratore di Avellino, Gagliardi, per l’accertamento di eventuali responsabilità omissive nell’attivazione dei soccorsi e nel 1983 fu riabilitato con la nomina a prefetto di Chieti. Ma gli è rimasto ingiustamente affibbiato il luogo comune di “prefetto del terremoto”, ovviamente in accezione negativa.
Come detto gli subentrò il 26 novembre, nella prefettura provvisoriamente trasferita presso la caserma dell’Esercito Berardi, il brillantissimo Carmelo Caruso. Prefetto ricco di iniziativa, empatia e capacità manageriali, che esercitò le funzioni in Irpinia per circa un quadriennio, instaurando un rapporto di straordinaria collaborazione con i sindaci e le autonomie locali per poi sviluppare una prestigiosa carriera. Tuttavia, nonostante la sua positiva incidenza nella ricomposizione dei circuiti istituzionali e la notevole popolarità a suo tempo acquisita, si è purtroppo sbiadita la memoria del prefetto Caruso.
Accanto alle disfunzioni e alle polemiche si manifestò, sin dall’immediato post-terremoto, anche la grande pagina della solidarietà attraverso il massiccio apporto di volontari accorsi da ogni parte d’Italia, le donazioni, e gli aiuti internazionali. Dagli Stati Uniti, dalla Germania, dalla Francia, da altri Stati europei e, in denaro, dai Paesi Arabi. Si pensi ad esempio all’attuale Conservatorio musicale di Avellino donato dagli americani, al c.d. “centro australiano” dell’ASL dedicato alla riabilitazione pediatrica, al centro sociale “Samantha della Porta” (la più piccola delle vittime del terremoto) donato dalle organizzazioni sindacali, alle tante altre strutture dislocate nei comuni terremotati.
L’avvio della ricostruzione, con la destinazione di massicci finanziamenti statali, determinò anche un insidioso tentativo di infiltrazione negli appalti e di aggressione da parte della camorra imprenditrice campana e “cutoliana”, culminata in alcuni fatti di sangue e in particolare nel fallito attentato al procuratore Gagliardi. Tuttavia la incisiva e decisa risposta dello Stato, attivata dalla magistratura e dal prefetto Caruso che coniò lo slogan del “muro di popolo” contro la camorra e della pubblica amministrazione come “casa di vetro”, in uno al tessuto sostanzialmente sano dell’Irpinia e dei suoi amministratori locali determinarono la sconfitta di questo pericoloso tentativo all’inizio degli anni ottanta.
Dopo la fase della prima riparazione e riattazione di edifici danneggiati si apriva, con l’approvazione della legge speciale 219/81, il lungo, complesso ed articolato processo di ricostruzione pubblica e privata e di sviluppo industriale delle aree interne terremotate che – con molte luci e qualche ombra – ne ha determinato nell’ultimo quarantennio la trasformazione infrastrutturale e strutturale. Oggi sostanzialmente assimilata nell’attuale e più evoluto assetto urbano e territoriale.
Il capitolo definito più facilmente e rapidamente è stato quello della ricostruzione rurale delle case di campagna, trasformate in dignitose villette, a cui è seguito quello molto più complesso e tribolato della ricostruzione privata in sito e fuori sito mediante l’adozione di appositi strumenti urbanistici, con alcuni strascichi aperti ancora oggi. Le difficoltà della strumentazione urbanistica “ad hoc”, il frazionamento e la litigiosità delle proprietà private nei condomini con i relativi contenziosi, i vincoli, i periodici esaurimenti dei fondi disponibili poi via via rifinanziati dal CIPE, le problematiche interpretative, ecc. hanno reso il processo estremamente lento e faticoso. Ma oggi tuttavia in larga parte completato con la soddisfacente ricostruzione dei centri storici ed anche mediamente con buoni risultati di architettura e di rinnovata edilizia. La ricostruzione pubblica, finanziata con i fondi della 219, ha consentito di realizzare importanti opere infrastrutturali di rafforzamento dei servizi e dell’armatura urbana, come ad esempio ad Avellino la Città Ospedaliera, il Palazzo Municipale, il Teatro Comunale, l’autostazione, gli assi stradali, ecc.
Parallelamente alla ricostruzione civile e commerciale veniva avviato il massiccio ed articolato programma di sviluppo industriale con la infrastrutturazione ex novo di diverse aree per insediamenti produttivi in montagna (Nusco, Lioni e Sant’Angelo, San Mango, Calabritto, Conza, Calaggio-Lacedonia, Porrara-Sant’Angelo, Morra de Sanctis in Irpinia, ecc.) incentivando l’insediamento di nuove imprese. Con risultati alterni: in alcuni casi di significativo impatto economico ed occupazionale ed in altri casi deludenti ed infruttuosi per il territorio, laddove per contrastare lo spopolamento dei comuni interni occorre uno sviluppo imperniato sulle vocazioni e potenzialità locali.
Il sisma del 23 novembre 1980 ha certamente rappresentato lo spartiacque tra il vecchio ed anacronistico modello di protezione civile, statalista ed assistenzialista, e il nuovo sistema del servizio nazionale a rete (L. 225/1992) fondato sulla previsione e prevenzione, sulla piena responsabilizzazione dei poteri regionali e locali, sull’integrazione del volontariato organizzato, sui raccordi tra amministrazione e comunità scientifica, sulla pianificazione multi-livello di protezione civile.
Il biennio 2020/22 è stato segnato da una delle più catastrofiche emergenze sanitarie e civili della storia contemporanea, di livello mondiale. La pandemia da Covid/19, di prolungata durata e con uno straordinario numero di vittime, ha nuovamente messo in discussione i modelli organizzativi di protezione civile e le reti di assistenza ed intervento, a cui ora sta facendo seguito in Europa la straordinaria stagione della ripresa con massicce progettualità ed investimenti sintetizzati nella taumaturgica formula del PNRR. Come in tutte le fasi storiche, e come avvenne anche dopo il terremoto del 1980, potrebbe dirsi: «post fata resurgo».
In definitiva oggi il terremoto del 1980 rappresenta un ricordo non più vicinissimo ma nemmeno lontanissimo della nostra storia recente. Un evento che ci ha trasformato ed ha posto le basi del nostro presente e della nostra contemporaneità. La consapevolezza della memoria, che appartiene necessariamente alla nostra cultura, non va smarrita.