«Caro Amico ti scrivo» cantava Lucio Dalla, quasi mezzo secolo fa, nel brano “L’anno che verrà”.
Per noi, forse, l’anno che verrà potrebbe essere l’ultimo del mondo come lo conosciamo oggi. Non alludo a scenari bellici – che purtroppo già fanno sciagurata parte delle nostre cronache quotidiane – ma al fatto che il 2024 sarà fondamentale per molti equilibri geo-politici in tutti i continenti: andranno a votare quattro miliardi di esseri umani, cioè metà della popolazione mondiale.
In circostanze normali, si potrebbe anche fare spallucce: chi se ne importa, dopotutto, quale partito vince le elezioni in Indonesia, in Messico, oppure in Sud Africa? Beh, non proprio… almeno non questa volta. A nessuno sarà sfuggito che il primo a congratularsi con Javier Milei (sì, proprio quello con la motosega), dopo la recente vittoria in Argentina, sia stato il Populist in Chief, alias Donald Trump. Dappertutto assistiamo a teatrini elettorali, che per la verità paiono più baracconi da circo, messi su da estremisti quasi sempre populisti di destra. A costoro piace decorare i propri palchi con l’ottone, che essi stessi abilmente tirano talmente a lucido da farlo apparire come oro puro. Le loro promesse elettorali, più che orientate a costruire una vera alternativa, sono una dichiarazione di guerra ai principi delle democrazie liberali occidentali. Ahimè, di questo fenomeno l’Italia fu precursore.
«Ma la televisione…» nella canzone di Dalla annunciava una trasformazione che tutti stavano già aspettando. Vero. Anche adesso, più che mai: gli ingredienti per la trasformazione ci sono, eccome!
Si comincia in gennaio con il Bangladesh (170 milioni di anime) paese in cui molte multinazionali – sfruttando l’irrisorio costo del lavoro locale – producono scarpe, calze di nylon, abbigliamento, cibo congelato (e molto altro) grazie ad accordi assai gratificanti stilati con un regime dal polso ferreo, al governo da tre lustri. Al movimento popolare del Partito Nazionalista, che tenta di difendere i diritti dei lavoratori, restano pochi pensatori: i leader storici sono tutti incarcerati o in esilio.
E poi Taiwan, 24 milioni di abitanti, nodo geopolitico tra Cina e gli stati membri dell’AUKUS (Australia, Regno Unito e USA). Gli elettori avranno da scegliere fra tre approcci per gestire la spada di Damocle sospesa sulle loro teste: il DDP, partito sovranista, sostenitore dell’indipendenza totale; il KMT, partito più moderato e aperto a cominciare (si badi bene “cominciare”) un dialogo con la Cina; il TPP, fazione politica minoritaria e disponibile a una soluzione di compromesso con Pechino.
A febbraio il ritmo si intensifica: Pakistan, Indonesia e Sud Africa. Pakistan e Indonesia sono i due paesi musulmani più popolosi al mondo: il primo conta 240 e passa milioni di abitanti, mentre nel secondo vi dimorano 278 milioni.
In Pakistan si tratterà della prima tornata elettorale dopo la deposizione di Imran Khan nel 2022. Per quanto allontanato per motivi di corruzione (e parzialmente per spionaggio), Khan rimane la forza trainante del suo partito, il PTI, che egli tiene in scacco. Un po’ come Trump con i Repubblicani a Washington. Inoltre, andrà tenuto d’occhio il movimento separatista del Balochistan.
In Indonesia la situazione è ancor più delicata. Pivot importante per molte industrie (tra cui quella del mobile), sede produttiva di parecchie multinazionali e parte essenziale nella filiera dei materiali per le batterie delle auto elettriche, è un paese fortemente sbilanciato. Un’élite militare e affaristica domina la cima della piramide mentre le opposizioni, tra cui il Partai Buruh (laburisti) di Said Iqbal, si danno da fare per migliorare una situazione economico-sociale in cui il salario medio è inferiore ai $200/mese.
In Sud Africa, paese ricchissimo di risorse naturali, con 60.5 milioni di abitanti, in quanto a disuguaglianze non si sta meglio: l’1% della popolazione detiene il 70% della ricchezza, mentre il 60% ne detiene solo il 7%. Dilaniato da corruzione dilagante, l’African National Congress (ANC), il partito fondato da Nelson Mandela, è in picchiata: vi sono forti tensioni preelettorali.
A marzo tocca a 144.4 milioni di Russi. A meno di sconvolgimenti apocalittici, all’ora attuale difficilmente pronosticabili, sappiamo già come andrà a finire quella farsa. Come ogni Zar che si rispetti, Putin punta alla carica a vita; ha spedito Navalny in un gulag artico mentre gli altri oppositori sono incarcerati o hanno sbattuto in bevande leggermente alterate dal polonio. L’unico oppositore ufficialmente riconosciuto, Alexei Nechaev, fa parte dell’alleanza politica dello stesso Putin, il cosiddetto Fronte di tutte le genti Russe. Pulcinella non avrebbe potuto inventare una gag migliore. Tuttavia, il problema è serio, soprattutto in chiave elezioni UE e USA (che vedremo dopo). La dittatura moscovita non ha opinione pubblica da domare, e l’allentamento dell’appoggio all’Ucraina metterebbe il Cremlino in una posizione di forza con Kyiv e di minaccia per altri stati ex membri dell’URSS. A cominciare dai paesi Baltici. Che farà la NATO?
Poi, sempre in marzo, ci saranno le elezioni in Portogallo. Piccolo paese, direte voi. Ma, guarda caso, cartina tornasole dei mali politici di tutti i paesi del globo. La defenestrazione di Antonio Costa, Primo Ministro forzato alle dimissioni per corruzione poco più di un mese fa, rischia di consegnare le chiavi di Lisbona al partito di estrema destra Chega (che vuol dire “Basta!”).
In aprile è la volta dell’India. E qui si parla di un sub-continente abitato da oltre 1 miliardo e 430 milioni di persone. Narendra Modi, in carica dal 2014, cerca – e molto probabilmente otterrà – la riconferma. Il suo progetto, già molto avanzato, prevede il completamento della trasformazione dell’India in una teocrazia Hindu, abbandonando il cammino democratico intrapreso nel 1947 con Nehru. Con nessuna pace per gli oltre 200 milioni di cittadini musulmani e una trentina di milioni di cattolici: assisteremo ad altri sfollamenti ed eccidi come ai tempi dell’Indian partition? Questo possibile stravolgimento dell’India ha tutti i numeri per diventare un immenso grattacapo planetario. Rilevante partner commerciale di Europa e USA, in contrasto permanente con il Pakistan (quest’ultimo attualmente pro-Russia e pro-Cina), l’India gioca su un terreno equivoco. Se da un lato fa parte del QUAD (Quadrilateral Security Dialogue) assieme ad Australia, Giappone e USA per contrastare l’espansone cinese nel Pacifico, dall’altro ha offerto una mano e una solida sponda all’economia russa durante l’embargo attuale: Putin e Xi Jinping fanno gioco di squadra (per ora), Modri aiuta Putin che è alleato di Xi, però Modri e Xi si scannerebbero a vicenda volentieri.
E così arriviamo a giugno: elezioni in Messico, Venezuela e Unione Europea.
Il Messico, che Trump vuole nascondere dietro un muro mai completato, resta un paese di oltre 128 milioni di abitanti. Sede produttiva strategica per il settore automobilistico (oltre che per 12 mesi all’anno vero e proprio “orto” di frutta e verdura fresca per tutto il Nord America) ha purtroppo una piramide di ripartizione della ricchezza simile a quella del Sud Africa, con gigantesche sacche di povertà estrema. Sull’agenda politica pesano tre temi capitali che pongono il paese in netto contrasto con gli USA (ed ancor più nell’eventualità di un Trump 2): crimine, droga e migrazione.
Del Venezuela si potrebbe evitare di parlare visto che, con ogni probabilità, le elezioni in quel paese saranno la fotocopia della commedia moscovita. Se non fosse però che Maduro, con la Guyana, ora tenta di ripetere il modello Putin-Ucraina, allo stesso tempo distraendo il popolo (27 milioni) dai problemi di profonda corruzione del suo regime. Un possibile nuovo focolaio bellico.
Per l’Unione Europea (450 milioni di persone) saranno le prime elezioni dalla Brexit. Su questo giornale on-line scrivono penne assai più ferrate e autorevoli della mia e, dunque, mi limiterò ad annotare il rischio dello spostamento a destra con gruppi parlamentari che diventerebbero la “plaque tournante” dei paesi euroscettici (e pro-Putin) nonché di quelli già in balia di destre xenofobe come Olanda e Ungheria. Sul piatto stanno argomenti capitali: supporto militare all’Ucraina e l’adesione di Kyiv alla UE; sanzioni alla Russia e le frizioni interne su questo argomento (vedi Slovacchia, Ungheria); la difesa europea (soprattutto se a novembre negli Stati Uniti dovesse prevalere Trump); immigrazione; politiche su clima, giustizia e finanze; relazioni con la Cina… Un bel carico!
Da ultimo, il gran finale. Con tanto di fuochi d’artificio, come ogni copione di un grande spettacolo prevede: a novembre si vota per il quarantasettesimo Presidente degli Stati Uniti d’America (340 milioni di anime). I sondaggi oggi ci dicono una cosa, le azioni giudiziarie ne fanno pensare un’altra e talune sentenze delle Corti Supreme in 18 stati (attese nel primo trimestre 2024) possono ancora far ribaltare il percorso a ostacoli molteplici volte. Una situazione in divenire di cui nessuno, nemmeno il più tronfio The Donald, può essere sicuro. Arroccati intorno a Biden, i Dems sembrano deboli e paralizzati. Ma se Sparta piange, Messene non ride. Il GOP si tiene (per ora) l’ingombrante Trump perché è come quel cugino ricco alle cui feste si trova sempre qualcosa da spiluccare, un bicchiere da trangugiare e, se capita, pure qualcuno da rimorchiare per completare la serata. Anche se il tal cugino sta cordialmente sui maroni. Si vedrà più avanti se Trump riceverà la nomination dai Repubblicani; molto si giocherà nei vari tribunali da qui a fine marzo. La campagna elettorale, di fatto già cominciata, sarà un’antologia di discorsi incendiari e divisivi (altro che i tagli profondi della guerra di Secessione!) e diventerà il palco più fulgido di menzogne e polarizzazioni estreme. Nel caso in cui Trump dovesse essere rieletto, si aprirebbero scenari inimmaginabili fino a cinque anni fa: uscita dalla NATO (occhio, signori di Bruxelles!) e conseguente isolazionismo degli USA, stop agli aiuti all’Ucraina, abbandono di quasi tutti gli organismi internazionali, cambiamenti nelle strutture statali a mezzo di epurazioni e vendette (le liste sono già pronte in tasca all’ammiratore di Mein Kampf), limitazioni e imbavagliamento dei media liberi (ovvero annullamento del quarto potere), sovvertimento del sistema giudiziario e, cosa ancor più terribile, il rischio di una nuova guerra civile. Insomma, per quanto apocalittico, lo scenario che vede la più vecchia democrazia del mondo moderno trasformarsi in una dittatura è da tenere in conto. Purtroppo. A quel punto l’Europa sarebbe in mutande dal punto di vista della difesa militare (senza Washington la NATO vale pressoché zero) mentre Xi Jinping, Putin e tutti i loro vassalli – dalla Corea del Nord alla Siria, passando per Teheran – pronti ad applaudire fino a spellarsi le mani. Senza tralasciare le conseguenze in Medio Oriente, oggi assai difficili da pronosticare in tale prospettiva.
«L’anno che sta arrivando tra un anno passerà», concludeva Lucio. Ma lui si stava preparando. E noi? Consiglierei di allacciarsi le cinture di sicurezza e di confidare nel buonsenso di qualche miliardo di nostri simili: la speranza è che non si facciano imbonire dagli effimeri luccichii dell’ottone.