Tra qualche mese, saranno passati ottanta anni dalla ultima conferenza che stabilì l’assetto dell’economia monetaria e finanziaria internazionale. Gli accordi di Bretton Woods sono un insieme di regole economiche stipulate nel 1944 tra i principali Paesi industrializzati del mondo occidentale. Essi furono il risultato di trattative tenutesi dal 1º al 22 luglio 1944, a guerra ancora in corso, presso un albergo di Bretton Woods, località statunitense nello stato del New Hampshire, e furono sostanzialmente operativi per circa un trentennio, quando nel 1971 furono superati dallo Smithsonian Agreement siglato dal G10.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, il dollaro era stata individuata come unità di conto per la regolazione valutaria mondiale, dentro un sistema di cambi fissi ancorato all’oro, superato dopo la dichiarazione di inconvertibilità del 15 agosto 1971. Anche successivamente il dollaro ha mantenuto in modo sostanziale la sua caratteristica di moneta di riferimento non solo per il sistema internazionale degli scambi commerciali, ma soprattutto anche per l’economia finanziaria, cresciuta intanto progressivamente di rilevanza. Sulla prospettiva del sistema monetario mondiale si interroga il libro di Giacomo Gabellini, “Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana”, Diarkos editore.
Nei decenni più recenti è in corso una tendenza alla riduzione del potere economico degli Stati Uniti, e di conseguenza anche la valuta di quel Paese comincia a risentire di una differente struttura dell’economia internazionale, che tende a mettere in discussione tale egemonia. Sinora le spallate che sono state tentate dai concorrenti del regime finanziario americano sono state respinte attraverso una riconfigurazione degli assetti economici ed istituzionali finalizzati a conservare la centralità del dollaro.
Dall’epoca di Reagan a quella di quella Bush, la destra repubblicana al potere ha trasformato gli Stati Uniti in una Repubblica-impresa, nella quale l’economia non era più regolata dai mercati, ma da una coalizione di potenti lobby industriali. Questi ultimi, ormai beneficiano del sostegno di uno “Stato predatore” che, lungi dal limitare la morsa del governo sull’economia, è al contrario risoluto nel rafforzarla, allo scopo di dirottare l’azione statale e i fondi pubblici a tutto vantaggio degli interessi privati.
Mantenere il potere di mercato del dollaro comporta una precisa articolazione dei meccanismi economici.
Un Paese la cui moneta detiene lo status di valuta di riserva internazionale è necessariamente chiamato ad accumulare disavanzi commerciali affinché gli operatori economici non residenti possano detenerla. Occupare la centralità nel sistema monetario internazionale implica pertanto la permanenza in una posizione cronicamente deficitaria. Si aggiunga il fatto che il deficit commerciale deve essere associato a un deficit di bilancio che permetta alle Banche centrali degli altri Paesi di detenere delle riserve valutarie denominate nella moneta del Paese dominante.
Come ha detto Martin Wolf, editorialista del Financial Times, il resto del mondo continua a pagare per l’esercizio della potenza americana permettendo agli Usa di dispiegare i cannoni e consumare burro, anche perché il rientro dei dollari distribuiti a pioggia in tutto il mondo andava a sostenere il mercato obbligazionario, i listini di Wall Street e gli eccessi nel settore dei mutui subprime, dei leveraged buyout e dei crediti strutturati.
L’incisività della crescita dei corsi azionari imputabile al rimpatrio dei dollari di provenienza straniera – asiatica in primis – sulla posizione finanziaria netta statunitense risultava pressoché analoga a quella prodotta sulla bilancia dei pagamenti internazionali.
Basti pensare che, a fronte di un deficit commerciale pari a circa 6.100 miliardi e a un disavanzo delle partite correnti di 5.400 miliardi cumulati dagli Usa tra il 2002 e il 2010, l’ammontare complessivo del debito estero registrato nel medesimo arco temporale si è attestato a poco più di 600 miliardi di dollari, proprio a causa del contributo determinante apportato da quella che gli economisti statunitensi definiscono “materia oscura”, vale a dire il potere egemonico del dollaro.
I flussi di capitale, arrivando incessantemente da tutto il mondo, vengono a configurarsi come primaria fonte di reddito per gli Usa, capace di fruttare qualcosa come 4.300 miliardi di dollari entro il lasso di tempo interessato. L’iniezione vigorosa di capitali asiatici verso gli Usa si rivelò comunque insufficiente ad arrestare la caduta tendenziale del corso del dollaro, che – anche a causa della politica di deficit portata avanti dall’amministrazione Bush – tra il 2000 e il 2005 si deprezzò di qualcosa come il 30 per cento ridimensionando proporzionalmente il valore delle riserve accumulate dai detentori stranieri.
Una moneta-perno non può sparire fin quando non si è trovato qualcosa con cui rimpiazzarla. Sotto questo profilo, l’esempio dell’euro è eloquente. L’euro è stato creato anche con l’intenzione di sostituire il dollaro, e numerosi fra i suoi sostenitori ne sottolineavano i pretesi vantaggi intrinseci rispetto alla moneta americana. Tuttavia, l’euro si è rivelato incapace di prendere il posto del dollaro, o persino di ridurne l’influenza in maniera significativa. L’euro, oggi, resta a un livello inferiore fra le riserve valutarie delle Banche centrali rispetto all’insieme delle monete dei principali Paesi che ne fanno parte.
L’elemento che sta determinando un cambiamento anche nella struttura e nella gerarchia finanziaria internazionale riguarda i muramenti mei fattori geopolitici. Giacomo Gabellini attribuisce una grande importanza, e su questo non possiamo che essere d’accordo con lui, agli eventi occorsi dalla “crisi dei subprime” (2008) alla guerra in Ucraina (2022). È in effetti agli anni 2008-2010 che possiamo far risalire una disaffezione crescente per il modello di globalizzazione promosso dagli Stati Uniti.
Ne sono sintomi evidenti il consolidamento dei Brics, la creazione della New Development Bank e anche le iniziative della Cina. Le prime sanzioni imposte alla Russia nel 2014 hanno accelerato il processo. Da quel momento, la Russia ha cominciato a prendere in considerazione, se non proprio la dedollarizzazione in senso stretto, quantomeno un ridimensionamento del ruolo del dollaro nei suoi scambi commerciali poiché ritiene a ragione che questa moneta sia strumentalizzata dagli Stati Uniti, e costituisca una minaccia potenziale alla propria sicurezza finanziaria. La creazione di un mercato di yuan-renminbi presso la Borsa di Mosca lo dimostra. Negli anni dal 2014 al 2018, poi, la Russia ha adottato numerose misure istituzionali
rivelatesi fondamentali per fronteggiare la seconda ondata di sanzioni sopravvenuta nel 2022.
Gli Stati Uniti non rappresentano più la principale potenza economica mondiale; d’altronde, erano già stati sopravanzati dalla Cina da anni, quanto a numero di brevetti depositati. Si aggiunga anche il sorpasso in termini di Pil realizzato nel 2021 dai Brics sui Paesi membri del G-7.
Ormai i Paesi occidentali, Giappone incluso, non sono più nelle condizioni di dettare legge al resto del mondo: ci troviamo dinnanzi a uno spostamento strutturale, documentato da una miriade di prove. Giacomo Gabellini ha pienamente ragione nel sottolineare che la guerra in Ucraina ha accelerato un’evoluzione in tal senso – il conflitto ha contribuito a concretizzare questa transizione, come dimostrano l’alto numero di Paesi che bussano ormai alle porte dei Brics e il graduale allargamento dell’organizzazione.
Ma è cambiata anche la composizione dei settori economici nei principali Paesi del mondo. Nel 2021, il contributo al Pil fornito dall’industria è risultato pari al 39,43 per cento per la Cina, al 33,16 per cento per la Russia, al 29,02 per cento per il Giappone, al 26,74 per cento per la Germania, al 25,89 per cento per l’India, al 18,86 per cento per il Brasile, al 17,88 per cento per gli Stati Uniti e al 17,49 per cento per il Regno Unito.
L’apporto dei servizi si è attestato al 77,60 per cento per gli Stati Uniti, al 71,46 per cento per il Regno Unito, al 69,47 per cento per il Giappone, al 62,88 per cento per la Germania, al 59,38 per cento per il Brasile, al 53,31 per cento per la Cina, al 52,91 per cento per la Russia e al 47,51 per cento per l’India.
L’agricoltura ha invece pesato per il 16,82 per cento in riferimento all’India, per il 7,26 per cento al Brasile, per il 6,89 per cento al Brasile, per il 3,80 per cento alla Russia, per l’1,04 per cento al Giappone, per lo 0,96 per cento agli Stati Uniti, per lo 0,85 per cento alla Germania e per lo 0,67 per cento al Regno Unito.